Améry Jean

Intellettuale a Auschwitz

Pubblicato il: 28 Marzo 2010

Jean Améry, come molti altri ebrei, fu internato ad Auschwitz, Buchenwald e Bergen-Belsen. Vi rimase per due anni e riuscì a sopravvivere per caso. Nei venti anni successivi alla sua liberazione, avvenuta nel 1945, non affrontò mai, da letterato e da intellettuale, la sua esperienza della Shoah. Nel 1964, quando a Francoforte iniziò il grande processo ad Auschwitz, Améry decise di infrangere il suo personalissimo silenzio scrivendo il primo articolo sull’esperienza del Terzo Reich, un pezzo dedicato alla figura dell’intellettuale ad Auschwitz: “Quando però, grazie alla stesura del saggio su Auschwitz sembrò essersi infranta una confusa proibizione, sentii improvvisamente l’esigenza di dire tutto: così è nato questo libro”.

“Intellettuale a Auschwitz” è composto da cinque saggi diversi, accostati senza rigore cronologico, ma solo dall’intento, da parte dell’autore, di confessarsi e meditare su un vissuto che gli appartiene. Il titolo originale del libro è più articolato di quello scelto per la versione italiana, infatti, nell’edizione tedesca l’opera è intitolata: “Jenseits von Schuld und Sühne – Bewältigungsversuche eines Überwältigten” ossia “Al di là della colpa e dell’espiazione – tentativo di un sopraffatto”. Lo stesso Améry, in chiusura della prefazione, afferma: “Con questo libro non mi rivolgo ai miei compagni di sventura. Loro già sanno. Ciascuno di loro deve sopportare a proprio modo il peso di questa esperienza. Ai tedeschi invece, che nella loro schiacciante maggioranza non si sentono, o non si sentono più, responsabili degli atti al contempo più oscuri e più caratterizzanti nel Terzo Reich, spiegherei volentieri alcune circostanze che forse non sono state loro ancora rivelate”.

L’intellettuale a Auschwitz altri non è che lo stesso Améry o, per estensione, quel genere di persona che, secondo la definizione dello scrittore, ha predisposizioni per le discipline umanistiche e filosofiche e che ha scelto come suo sistema di riferimento quello spirituale. Un uomo che ha dedicato la propria vita allo studio, che è in possesso di nozioni approfondite e portato al ragionamento astratto. Come può sopravvivere un intellettuale nell’inferno di Auschwitz? Le difficoltà sono immani poiché in un luogo che annienta la dignità, che disumanizza ogni essere umano, la speculazione e la contemplazione sono decisamente inservibili. Quando ciò che muove gli istinti sono soprattutto la fame, il freddo, la sopravvivenza, è impensabile concedersi il lusso dello spirito. L’intellettuale è isolato ed odiato, diverso ed avulso. Odiato dalle SS per il fatto di essere ebreo, disprezzato dagli altri perché giudicato differente. Il tentativo stesso di rivendicare la propria identità di intellettuale di formazione culturale tedesca, all’interno di Auschwitz, è del tutto assurdo visto che “il patrimonio spirituale ed estetico era ormai divenuto indiscussa e indiscutibile proprietà del nemico”. L’ebreo, seppur di cultura tedesca, non poteva dichiarare la sua appartenenza a quel mondo perché oramai socialmente rinnegato e destinato all’annientamento. “Lo spirito nella sua totalità nel Lager si dichiarava incompetente. Rinunciava a porsi come strumento utile ad affrontare i problemi che ci venivano posti. Tuttavia – e qui tocco un punto essenziale – esso tornava utile al “superamento di sé”, e non era cosa da poco”.

Prima della prigionia, la tortura. Améry è chiaro fin da subito: “l’esperienza più atroce che un essere umano possa conservare in sé”. Lo scrittore sa che la sua esperienza non è esclusiva né irripetibile. La tortura è stata, è e sarà uno dei mezzi più utilizzati da ogni organismo di controllo. Tuttavia riconosce che l’essenza fondamentale del nazismo è rintracciabile proprio nelle pratiche di tortura. L’origine di tale osservazione è abbastanza profonda: torturare comporta l’annullamento della misericordia. L’aguzzino non deve e non può sentire la sofferenza del torturato. Non può permettersi com-patimento alcuno perché l’altro è totalmente negato: esattamente lo spirito che ha portato allo sterminio di milioni di esseri umani. Eppure i torturatori non erano mostri repellenti ma persone come tante. Anche se non si può considerare “normale” o “banale”, riprendendo la definizione della Arendt, quel male. Perché è una lacerazione realmente inimmaginabile, perché la “banalità” è pensabile, mentre la sofferenza inflitta ad un corpo umano non ha niente a che vedere con la “banalità” del prevedibile. A tali considerazioni va sommata la consapevolezza, da parte della vittima, che non ci sarà soccorso e che non si ha alcuna possibilità di difesa. Nel torturato rimarrà indelebile la violazione subita. Nulla al mondo potrà cancellare la percezione di angoscia impotente provata di fronte al dominio di un essere umano simile ma con il potere distruttivo di un semi-dio. Sentimenti che si radicano e che maturano la sete di vendetta.
Ed Améry non nasconde il suo risentimento. L’ammissione è schietta e tagliente: “i risentimenti sopravvivono perché nella vita pubblica della Germania occidentale restano attive personalità che furono vicine ai persecutori, perché, nonostante il prolungamento dei termini di prescrizione per gravi crimini di guerra, i criminali hanno buone possibilità di invecchiare rispettabilmente e di sopravvivere, trionfanti, a noi, come garantisce l’attività che svolsero nei loro giorni migliori”. In sostanza: fino a quando i tedeschi non pagheranno per quanto i loro predecessori hanno fatto, nessuna vittima potrà dirsi ripagata, nessuna colpa sarà veramente cancellata. Lo scrittore non perdona, non può farlo e nessuno può arrogarsi il diritto di pretenderlo. Non sono risparmiate nemmeno le giovani generazioni che, tecnicamente, non hanno legami diretti col Terzo Reich. La colpa collettiva nasce dall’omissione e dei silenzi, una macchia che il popolo tedesco porterà in eterno con sé perché i misfatti compiuti nei dodici anni di regime hitleriano non sono stati e non saranno mai puniti completamente. La tendenza alla prescrizione generata dallo scorrere del tempo e dalla perdita di una parte di memoria storica non fa che acuire lo sgomento e il disprezzo dell’autore: “Nei due decenni dedicati alla riflessione su ciò che mi accadde, credo di avere compreso che la remissione e l’oblio provocati da una pressione sociale sono immorali. Chi perdona per ignavia e convenienza si sottomette al senso sociale e biologico – abitualmente definito «naturale» – del tempo”.

Scrivere di questo libro non è facile. “Intellettuale a Auschwitz” è un’opera complessa e multiforme, affrontare tutti gli spunti e le innumerevoli riflessioni che Améry introduce richiederebbe un lavoro più ampio. Mi sono limitata a riportare alcuni dei passaggi a mio avviso più carichi, anche se sono perfettamente cosciente della mancanza di esaustività. “Intellettuale a Auschwitz” rappresenta una lettura importante ed intensa perché conduce alle radici del tormento di un essere umano che, con immenso acume e profonda sincerità, analizza il proprio dolore e confessa il suo odio. Améry non nasconde la sua rabbia né camuffa il suo sdegno di fronte a quegli eventi che non solo lo hanno ferito e trasformato, lacerando la sua coscienza e la sua umanità, ma che, tra l’altro, teme possano ripetersi. Il segno inciso nell’anima di Améry, e di tante altre vittime della Shoah, è incancellabile, va oltre la vita e oltre la morte: “Sul mio avambraccio sinistro ho tatuato il numero di Auschwitz; si legge più in fretta del Pentateuco o del Talmud, eppure è più esaustivo”.

Edizione esaminata e brevi note

Il vero nome di Jean Améry è Hans Chaim Mayer. Nacque nel 1912 a Vienna. Suo padre era un ebreo non praticante, sua madre cattolica. Hans visse gli anni della sua prima giovinezza nella regione austriaca del Voralberg. La sua famiglia era completamente assimilata nell’impero austroungarico. Quando Hiltler iniziò a decretare le prime leggi contro gli Ebrei, Améry frequentava l’Università di Vienna, Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 1938, quando l’Austria venne annessa alla Germania, lo scrittore emigrò in Belgio e qui entrò a far parte di un gruppo rivoluzionario che cercava di opporsi al regime nazista. Nel 1943 fu arrestato e torturato dalle SS e dalla Gestapo. Venne poi rinchiuso ad Auschwitz, passando anche per i campi di Buchenwald e Bergen-Belsen. La liberazione sopraggiunse nel 1945 per opera dell’esercito britannico. A questo punto lo scrittore si spostò a Bruxelles e, rinnegando le sue origini tedesche, assunse il nome Jean Améry. Iniziò così la sua attività di scrittore e saggista a cui si affiancarono collaborazioni con TV e radio. Améry si è suicidato il 17 ottobre del 1978. La sua tomba si trova a Vienna e riporta inciso il numero di Auschwitz che lo scrittore aveva tatuato sul braccio.

Jean Améry, “Intellettuale a Auschwitz”, Bollati Boringhieri, Torino, 2008. Presentazione di Claudio Magris. Traduzione di Enrico Cerri.