La giovane donna ritratta di profilo nella foto di copertina è proprio Evgenija Jaroslavskaja-Markon: “figlia della borghesia intellettuale ebraica di Pietrogrado, moglie del poeta Aleksandr Jaroslavskij, anarchica, ladra, deportata sulle Solovki, condannata a morte, giustiziata a ventinove anni“. Una vita brevissima quella di Evgenija ma vissuta con la passione di un’estremista, con la determinazione di una combattente, con la voracità di una ribelle. Il bel libro appena pubblicato da Guanda raccoglie l’autobiografia della Jaroslavskaja-Markon che, poco prima di essere giustiziata nel gulag delle Solovki in cui è stata rinchiusa, decide di mettere per iscritto la propria storia. “Scrivo questa autobiografia non per voi, organi inquirenti (se fosse servita solo a voi, non mi sarei nemmeno sognata di scriverla!). Semplicemente, ho voglia di «imprimere» la mia vita sulla carta, ma di carta non riesco a trovarne, tranne che nell’Ufficio informazioni e indagini (la carta è scomparsa dalla nostra Unione: non per niente «la produzione rinasce e l’economia si attrezza»). La scrivo per me. Scrivere per distorcere la realtà non m’interessa. E poi non ho niente da perdere. Ecco perché sono sincera“.
La sincerità è una delle virtù a cui Evgenija si appella costantemente, una qualità che conferma di possedere da sempre e che pratica fieramente in ogni momento della sua esistenza. Evgenija Markon nasce a Mosca il 14 maggio del 1902 figlia di un filologo e storico dell’ebraismo, bibliotecario della Biblioteca pubblica imperiale, professore dell’Università di Pietrogrado prima e di quella di Minsk poi. Da lui Evgenija eredità l’amore per la conoscenza, un acuto spirito d’osservazione e molta curiosità. La Markon ben presto comprende che il suo stile di vita borghese e agiato non è ciò che vorrebbe. Fin da ragazzina aspira a vivere come i proletari russi, le sue ambizioni sono sicuramente anomale: “crescendo sarei diventata una rivoluzionaria clandestina, per me era un fatto scontato; ma ancor più dolce era un altro sogno segreto: rinunciare a ogni aspetto intellettuale, rinunciare persino all’istruzione, abbandonare gli studi, abbandonare la mia famiglia ed entrare in fabbrica per sempre da semplice operaia. E anziché un intellettuale o un leader rivoluzionario, avrei sposato proprio un semplice operaio“. In verità Evgenija non solo si laurea in filosofia ma sposerà anche il poeta Aleksandr Jaroslavskij, condannato e giustiziato poco prima di lei.
La Markon dichiara sfacciatamente e in maniera plateale la sua avversione per il regime sovietico. Riconosce la validità del principio rivoluzionario che ha condotto il suo Paese a ribellarsi: l’idea della rivoluzione inizialmente la incanta e la seduce ma il sistema che i soviet mettono a punto in una fase successiva la disgusta. Detesta l’ipocrisia dell’apparato sovietico, disprezza quel comunismo che in principio aveva ammirato e sostenuto con passione e devozione. Vede attorno a sé la fame e la miseria a cui sono ridotte le persone e, per rispetto, decide di non mangiare più. “E mi veniva da pensare: se faccio così fatica a digiunare io che ho la bocca piena di idee, cosa dovrebbe dire un cittadino affamato la cui fame non è alleviata dalla dedizione a un ideale, e che è rimasto intrappolato in questa merda di rivoluzione come un pesce nella rete?“. Delusa da “tutto questo comunismo“, Evgenija proclama in maniera cristallina la sua distanza ideologica da un movimento che era stato rivoluzionario ma che, una volta asceso al potere, poiché non più mosso dalla volontà di sovvertire l’ordine costituito ma divenuto esso stesso l’ordine costituito, è divenuto conservatore e addirittura controrivoluzionario. Posizioni estreme che la giovane prigioniera ribadisce con nitida lucidità e con quella sincerità che è sempre stata il suo lume.
Gli autentici uomini della rivoluzione sono per la Markon solo coloro che non potranno mai raggiungere il potere: i criminali, i terroristi, gli estremisti, gli anarchici. Persone che partecipano alle rivolte ma che, al momento del trionfo, vengono esclusi. È anche per questa ragione che, ad un certo punto della sua vita, Evgenija Jaroslavskaja-Markon, dopo aver tenuto conferenze in Russia e all’estero con suo marito, dopo aver viaggiato e scritto articoli per riviste prestigiose, sceglie di vivere ai margini di un sistema che disprezza. Aleksandr Jaroslavskij è in carcere ma lei continua a manomettere il sistema sovietico a modo suo. Non vuole più vivere in una casa ma per strada. Si avvicina ai teppisti e con loro impara l’arte del furto. Dorme dove capita, rischia di essere stuprata, si muove di notte, vende fiori e giornali, ruba quando se ne presenta l’occasione e si fa passare addirittura per indovina. “Sognavo […] di fondare un comitato dei delinquenti politico e apartitico che riunisse tutti gli elementi antisovietici e semplici fuorilegge, al preciso scopo di liberare dai luoghi di reclusione i condannati a morte in prima battuta, e poi tutti gli altri criminali più grossi, sia comuni sia politici“. Viene arrestata più volte e, alla fine, è condotta in Siberia. Ed è proprio nel gulag delle isole Solovki che Evgenija Jaroslavskaja-Markon troverà la morte, giustiziata il 20 giugno del 1931. La sua autobiografia, o “autonecrologio”, come Evgenija lo definisce, riporta in calce la data del 3 febbraio 1931.
Nel libro sono riportati anche i testi dell’interrogatorio di E.I. Jaroslavskaja, l’atto d’accusa e un estratto del verbale del processo. Altri approfondimenti sulla storia di Evgenija e sul destino legato all’autobiografia che ha lasciato sono ben descritti nella prefazione di Olivier Rolin e nella postfazione di Irina Flige. Un libro molto particolare, non c’è dubbio, così come è particolare e straordinaria è la donna di cui questo memoriale trasmette il ricordo e la passione. Uno spirito inquieto e indisciplinato, una giovane che non ha mai accettato compromessi e che ha fatto del suo corpo e del suo stile di vita un’arma da scagliare contro un sistema che disprezzava intimamente. Una filosofa rigorosissima, ebrea ma atea, una moglie innamorata e devota, una pensatrice granitica. Una dissidente che giura che vendicherà col sangue la morte del suo uomo ma nel contempo giura anche “di vendicare quel disgraziato tiratore la cui mano si è alzata per fermare con la bocca di un revolver il geniale flusso di pensiero che usciva dalla mente brillante di Aleksandr Jaroslavskij, e tutti i fucilieri che hanno sparato, ipnotizzati dalle vostre parole ipocrite, pseudorivoluzionarie, commettendo così un omicidio con la noncuranza di mercenari o di schiavi: giuro di vendicare con la parola e con il sangue tutti coloro «che non sanno quello che fanno»“.
Edizione esaminata e brevi note
Evgenija Jaroslavskaja-Markon (Mosca, 1902 – isole Solovki, 1931). Nata a Mosca in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, crebbe a San Pietroburgo, dove studiò Filosofia e nei primi anni ’20 incontrò il poeta Aleksandr Jaroslavskij, che poco dopo sposò. Insieme a lui viaggiò in Unione Sovietica e all’estero tenendo conferenze. Arrestato il marito per propaganda antisovietica, scelse il mondo della piccola criminalità. Lei stessa arrestata e rilasciata venne infine condannata al gulag nelle isole Solovki dov’era detenuto anche il marito. Lì scrisse la sua storia, e venne fucilata nel 1931.
Evgenija Jaroslavskaja-Markon, “La ribelle“, Guanda, Milano, 2018. Prefazione di Olivier Rolin. Postfazione di Irina Flige. Traduzione di Silvia Sichel.
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