Pagiotti Simone

La melodia dei perdenti

Pubblicato il: 29 Febbraio 2016

Opera prima di Simone Pagiotti, “La melodia dei perdenti” di primo acchito potremmo classificarla come una sorta di romanzo di formazione, un bildungsroman magari un po’ sui generis: chi racconta le sue vicende è un trentenne fatto e, pensando all’antica definizione, non è che proprio venga promossa “l’integrazione sociale del protagonista”. Anzi, a voler essere più precisi, dovremmo definire “La melodia dei perdenti” come romanzo di de-formazione e poi di “depurazione”. Come leggiamo in quarta di copertina il racconto “valorizza la bellezza del perdere tutto, ricominciare, sentirsi liberi”, che passa – qui la de-formazione – per un percorso fatto di “fantasmi, alcool e prostitute, solitudine e disillusione”. Il protagonista, di ritorno dall’estero, viene scaricato dalla sua storica fidanzata, non si sa bene per quale motivo – forse accusato di essere troppo malinconico? – anche se, da subito, la normalità non lasciava presagire nulla di buono: “siamo fidanzati da sei anni tra diversi alti e bassi, ora superati i trenta entrambi ci è sembrato normale cominciare a parlare di matrimonio, così una volta tanto ho preso di petto la situazione e qualche mese fa abbiamo cominciato a parlarne con più serietà” (pp.7). Liquidato dalla sua Miriam, senza troppe cerimonie, il trentenne perugino si ritrova in uno stato confusionale e anche il suo lavoro va a rotoli, complice un datore di lavoro arrogante e dispotico. Senza uno stipendio, incapace di ricevere consolazione dai familiari – accanto a lui una madre che anni prima era stata abbandonata dal marito, e una sorella che invece sembra aver costruito qualcosa di buono – e dopo aver tentato inutilmente di ricevere delle spiegazioni dalla sua ex, ora probabilmente in piena fase puttanesca, i giorni passano tra sbronze, rimuginamenti, e a sbattersi di malavoglia una cicciona solitaria e assatanata di sesso. Una china pericolosa che viene interrotta nella maniera più semplice: la visita, dopo tanti anni, ai nonni. Qui, in piena campagna ma neanche troppo distante da Perugia, ormai città come tutte le altre, il “trentenne qualsiasi” sembra abbandonare pian piano le sue ossessioni. Intendiamoci: non ci dobbiamo aspettare un ritrattino oleografico di vita rurale, tutto suggestioni silvo-pastorali. Una volta allontanatosi dalla vita di provincia, ormai un susseguirsi di cafonerie e autolesionismi, al nostro giovane cittadino basta davvero poco per ritrovare un briciolo di dignità: il cellulare senza più campo, internet e facebook azzerato, e così eliminate le parole in libertà della ex, una televisione antidiluviana, tecnologia ai minimi termini, un lavoro manuale tale da rendere “il corpo dolorante e spossato ma la testa sgombra e leggera” (pp. 146).

Non sappiamo quanto di autobiografico ci sia nel romanzo di Pagiotti o quanto invece sia scaturito dall’osservazione della vita di provincia – ammesso sia davvero possibile definire cosa sia o non sia provinciale – ma di certo la gran parte delle pagine di “La melodia dei perdenti” hanno ben poco di consolante: l’amarezza regna sovrana; malgrado alla fine il protagonista smetta di farsi ancora del male, soprattutto fregandosene della futilità di persone e di cose che fino a quel momento apparivano indispensabili. Quello che appare come una sorta di passaggio di consegne non avviene tra padre – in questo caso assente – e figlio, ma tra nonno e nipote, quasi a marcare con più forza la necessità di ritrovare i ritmi e i valori di un passato più remoto: “discendo la scalinata e m’incammino verso il campo, rallento, apro i polmoni, deglutisco, poi senza nemmeno accorge mene riprendo il passo e comincio a fischiettare [ndr: “la melodia dei perdenti”] (pp.208). Per descrivere questa “caduta e rinascita”, come una sorta di diario intimo, la narrazione in prima persona ci è sembrata la più opportuna e quella più coerente con un tono per lo più discorsivo, che qualcuno magari definirebbe antiletterario: Pagiotti evita, giustamente, quei virtuosismi verbali che spesso gli esordienti azzardano con poco successo e pochi risultati. “La melodia dei perdenti” semmai poteva guadagnarci con un dispendio minore di parole, sfrondando le elucubrazioni del protagonista cornuto e mazziato; facendolo diventare un racconto lungo piuttosto che un vero e proprio romanzo. In ogni caso è un’opera di esordio che si fa leggere con interesse, in cui la schiettezza dello stile trova una sua corrispondenza con quanto compreso dal protagonista: l’aspirazione a una vita più semplice, dove anche i vizi sono vissuti con sobrietà, una maggiore solitudine non come condanna all’infelicità ma come condizione a volte necessaria per apprezzare molto di quello che fino ad allora era stato stupidamente ignorato.

Edizione esaminata e brevi note

Simone Pagiotti, vive dal 1978 a Perugia e dintorni. “La Melodia dei perdenti” è il suo primo romanzo.

Simone Pagiotti, “La melodia dei perdenti”, Ass. Culturale Il Foglio (collana Narrativa), Piombino 2015, pp. 210.

Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2016