DeLillo Don

I nomi

Pubblicato il: 2 Giugno 2008

“I numeri si comportano, le lettere no.” (pag. 241). I nomi, The names. Questo romanzo di Don DeLillo, scrittore americano nato da genitori italiani emigrati negli States dopo la prima guerra mondiale (cfr. Wiki Ita ; Wiki en), citato come uno dei maggiori esempi del postmoderno americano (ne ho letto in “Raccontare il postmoderno” di Ceserani. Lo stesso critico citato da Ceserani, e di cui, ahimé, non ricordo il nome, prendeva ad esempio “I nomi” ed un altro romanzo per far emergere le differenze fra le caratteristiche del moderno e quelle del post-moderno, che riduceva, infine, ad una diversità di domande poste dai vari autori nei propri scritti. Mi spiace non poter essere più preciso, ma non ho il libro, ed è lettura di tempo fa), è un romanzo che gira attorno, dentro, sopra e sotto, ad un culto di cui niente si sa, ma che il protagonista, James Axton, è deciso a scoprire, a capire. Un romanzo intellettuale ed americano, in un senso che è possibile intuire solo leggendolo. I nomi. Un libro che mi ha costretto a sottolinearlo, pratica che sto continuando per un altro romanzo, in modo più ossessivo e pervasivo, e scrivere a lato. Perché troppe cose degne di essere portate all’attenzione, ogni pagina una piccola riflessione che fa scattare qualcosa dentro. Una ricerca di sé che si espleta e configura nella ricerca ossessiva del “culto” e dei suoi seguaci, e del suo “segreto”. Segreto banale, e banalmente terribile. Tutto porta ad una morte, ed una sola.

“<< Ma perché uccidere? >>
<< Nulla di meno >>, disse. << Doveva essere quello. Seppi subito che era così. Non so descrivere come mi penetrò pienamente e profondamente. Non come domanda, non come risposta. Una cosa definitiva e terribile. Seppi che era giusto. Doveva esserlo. Scuotere il suo cranio, ucciderlo, schiacciare il suo cervello >>.
[…] Un posto dove gli uomini possono smettere di creare storia… […]
Si potrebbe dire che la struttura è intrinseca alla follia. L’una non esiste senza l’altra >>.”
(pag. 242-243)

James Axton è un analista di rischio per una grossa società americana, separato dalla moglie con un figlio, Tap, vive ad Atene, da cui si sposta in tutto il Medio Oriente, fino all’India, per il suo lavoro. Le vicende sono ambientate sul finire degli anni ’70, anni non proprio tranquilli in quella regione (come se ce ne fossero stati di tranquilli, uhm, da quelle parti). La moglie, Kathryn, lavora a degli scavi archeologici su un’isoletta greca, il figlio con lei, e ha un capo, Owen Brademas, costantemente alla ricerca di. Qualcosa. Sull’isola, accade un omicidio. Apparentemente inspiegabile. Ma ecco che ci sono delle persone, che c’è un culto, che ci sono stati omicidi all’apparenza inspiegabili altrove, che ci sono lingue mescolate, che ci sono lettere, che ci sono nomi.

Ta onómata.
I nomi.

Ma non c’è solo il culto. Ovvero, il culto è solo ciò che fa scattare il meccanismo che inizia il protagonista sulla strada dell’autocoscienza. Chi è James Axton, a questo punto della sua vita. Quali e di che tipo i suoi rapporti con il mondo. Con le persone che lo circondano, altri americani che vivono all’estero. Con suo figlio Tap, che sta scrivendo un romanzo, e con la donna da cui si è separato, ma non divorziato. Con le donne che incontra: “Un uomo prova gelosia verso una donna che non ha mai amato, che è soltanto un’amica. Non vuole sapere nulla del piacere dei sensi. Gli interessano le storie di lei a livello di tematiche, di motivi nella sua vita. […] Non c’è bisogno di odiare qualcuno per compiacersi della sua sfortuna. Non è così? Non c’è bisogno di amare una donna per sentirsi possessivi verso di lei o infastiditi dalle sue storie.” (pag. 190-191).

Romanzo scritto in prima persona, in cui lo sguardo del protagonista procede per scatti, si passa dal dialogo alla descrizione di un paesaggio, o dei gesti di una persona che in quel momento non sta interagendo (non ancora). Uno sguardo che vaga, crea collegamenti, pone continue domande su di sé come sguardo, ma anche su di sé come linguaggio, e su di sé come Americano.

“<< Tutti sono là, naturalmente, non solo gli americani. Ma agli altri manca una certa qualità mitica che attrae i terroristi. […] L’America è il mito vivente mondiale. Non ci si sente in colpa ad uccidere un americano, a dare la colpa all’America per qualche disastro locale. […]
In America uccidiamo nel modo sbagliato. È una forma di consumismo. È l’estensione logica delle fantasie da consumo. Gente che spara dalle sopraelevate, case barricate. Immagini allo stato puro>>.” (pag. 136-137)

E lassù, il Partenone, che incombe, che è lì, dove Axton non è ancora andato, ma che prima o poi vedrà, visiterà.

“…il Partenone non era qualcosa da studiare ma da sentire. Non era distaccato, razionale, puro e senza tempo. Non vi si poteva localizzare la serenità, la logica ed il senso di stabilità. Non era una reliquia della Grecia antica ma una parte della città vivente là sotto.” (pag. 380).

DeLillo ti prende e ti accompagna in zone che conosci, ma che non hai ben presente di te.
C’è un litigio fra James e Kathryn, stupendo, dura pagine.

“Il litigio fu lungo e articolato, con pause naturali, e si spostò dalla strada alla terrazza, dentro casa e finalmente sul tetto. Era pieno di meschinità e di disprezzo, le consuete forme d’assalto domestico, le diminuzioni sui cui ci si trovava d’accordo. … La nostra rabbia era enorme ma tutto quello che riuscivamo a mostrare, a tirare fuori, erano questi farfuglii, queste repliche, e persino quello lo facevamo male. … Il litigio aveva una sua vita propria, una sua forza separata dagli argomenti. …
<< Stronza. Lo sapevi >>.
<< Ho cercato di trovare un’alternativa >>.
<< Questo vuol dire addio Inghilterra >>.
<< Potremo sempre andare in Inghilterra >>.
<< Ti conosco, io >>.
<< Che cosa conosci? >>.

<< Bottino. L’ho imparato da Tap >>.
<< Odio questa salita >>.
<< Lo dici sempre >>.
<< Non sono l’uomo che… oh, lasciamo perdere >>.
<< Non lo sei mai stato. Non sei quello che non sei mai stato >>.
Il litigio aveva risonanze. Aveva livelli, memorie. Si riferiva ad altri litigi, città, stanze, quelle lezioni sprecate, la nostra storia, in poche parole. […] Eppure era presente, un amore disperato, il consapevole, oscillante, riassunto delle cose. Era parte del litigio. Era il litigio stesso.
Facemmo in silenzio il resto del percorso e lei andò a vedere Tap che dormiva. Poi sedemmo sulla terrazza e subito ricominciammo a bisbigliare.
<< E dove andrà a studiare? >>
<< Ricominciamo con questa storia? >>” (pag. 145-147)

E continua. Non si può parlare di questo libro senza leggerlo, senza ri-leggerlo. Così denso ed intenso nelle riflessioni, nelle situazioni. Thriller psicologico, nella pagina di wikipedia che ho linkato. Mah. Non direi. Sarebbe come dire che l’Edipo Re è solo il primo giallo della storia. Sguardo riduttivo che, se non dice il falso, comunque limita l’oggetto entro confini che, in realtà, straborda.
Don DeLillo, “I nomi”. Da leggere, se avete voglia di perdervi nelle parole.

“<< La parola sanscrita per “nodo”, disse Emmerich, alla fine venne a significare “libro”. Grantha. Questo per via dei manoscritti di ramo di betulla e foglia di palma che venivano legati ad un cordone che passava dentro due buchi e si fermava con dei nodi >>.
Un capo austero, si ripeteva Owen. Suo padre rideva sempre per via del cappello enorme che indossava con la sua tuta a pettorina. Oltre il negozietto all’incrocio. La tenda parasole e l’insegna della Coca-Cola. I pali di legno affondati nei blocchi di cenere. Sua madre diceva sempre: << Non ci capisco un’acca di quel che stai dicendo >>.
[…]

<< Che cos’è un libro?, disse Emmerich, È una scatola che apriamo. Tu questo lo sai, immagino>>.
<< Cosa c’è nella scatola? >>
<< La parola greca puxos. Albero di bosso. Questo suggerisce il legno, ovviamente, ed è interessante che la parola “libro” in inglese abbia origine dal medio olandese boek, o betulla, e dal germanico boko, un’asta di betulla su cui venivano incise le rune. E allora, riassumendo, abbiamo: libro, scatola, simboli alfabetici incisi nel legno. Il manico di legno dell’ascia o del coltello su cui veniva inciso il nome del proprietario in lettere runiche >>.
<< E questa è storia? >>.
<< No, non è storia, è esattamente il suo opposto. Un alfabeto completamente inerte. Quando leggiamo inseguiamo delle lettere statiche. Questo è un paradosso logico >>.” (pag. 336-337).

Edizione esaminata e brevi note

Don DeLillo è nato nel 1936 nel Bronx da una famiglia di origine italiana. Nella sua lunga carriera ha vinto il National Book Award, il PEN/Faulkner Award e il Jerusalem Prize ed è considerato il grande maestro della narrativa postmoderna americana. Presso Einaudi ha pubblicato: Underworld, Libra, Body Art, Valparaiso, Cosmopolis, Mao II, La stanza bianca, Giocatori, Running Dog, Rumore bianco, Love-Lies-Bleeding, I nomi, L’uomo che cade, Americana, Contrappunto, Great Jones Street, Punto omega, La stella di Ratner, L’angelo Esmeralda, End zone e Zero K.

Don DeLillo, I nomi, Tullio Pironti Editore, 1999. Traduzione di Amalia Pistilli.

Adesso è pubblicato da Einaudi, stessa traduzione, ma, mi hanno detto, meno refusi. Tra l’altro, la mia copia si è progressivamente scollata durante i viaggi in treno cui è stata sottoposta. (2008)

Aggiornamento 2020: Per Einaudi adesso è fuori catalogo, ma su ibs si trova l’edizione Pironti.