Cocchi Michele

Us – Conversazione con Michele Cocchi

Pubblicato il: 29 Maggio 2020

Questa è una conversazione che ha occupato varie settimane poiché si è deciso di andare avanti una domanda per volta. Nel frattempo sono uscite anticipazioni e l’autore ha parlato in altre occasioni del romanzo, quindi alcune persone tra voi troveranno delle informazioni non nuove, ma più che dare informazioni questa conversazione/intervista vorrebbe essere un’occasione di riflessione sui temi trattati nel libro.

Ho conosciuto la scrittura di Michele Cocchi con il suo primo romanzo, La cosa giusta, uscito per la piccola casa editrice toscana Effigi nel 2016. Toscano, classe 1979, delle stesse mie parti, ne avevo già sentito parlare quando Elliot aveva pubblicato il primo libro nel 2010, una raccolta di racconti dal titolo Tutto sarebbe tornato a posto, ma per un qualche motivo non avevo approfondito (ho recuperato in seguito). Nel 2017 arrivò il secondo romanzo, La casa dei bambini (vincitore l’anno successivo del Premio Comisso), stavolta per Fandango. In quei mesi, approfittando della vicinanza fisica, abbiamo cominciato a vederci per sporadici caffè e chiacchiere in città: Pistoia. Due o tre volte l’anno ci ritagliamo del tempo per parlare.

I temi narrativi sviluppati dall’autore si intersecano in maniera evidente con il suo lavoro di psicoterapeuta dell’infanzia, dell’adolescenza e della famiglia: sono infatti gli anni della crescita, i rapporti familiari e intergenerazionali a trovare nella sua scrittura ampio spazio. I paesaggi storico e ambientale entrano nella narrazione e contribuiscono allo sviluppo della stessa in modo determinante, ma la concentrazione rimane sui protagonisti delle vicende: esseri umani che desiderano, che sognano altri esseri umani e altri luoghi, che fuggono da sé stessi, dagli altri, da un luogo, da un pensiero, dal passato; che cercano rifugio in un altrove immaginario, reale, in un futuro che forse arriverà o forse no, che porterà delusioni o soddisfazioni o un misto di entrambe.

È uscito ieri, 28 maggio, il suo terzo romanzo, Us, ancora per Fandango. Si tratta del primo libro italiano per la nuova collana della casa editrice romana: “Weird Young”, “dedicata alle giovani lettrici e ai giovani lettori. FandangoWY esplora le nuove forme di narrativa che spaziano dal crossover al new weird: storie adatte a tutte le età ma che raccontano il ricco e complesso universo degli adolescenti e dei giovani adulti” (il primo titolo proposto è Bunny, della scrittrice canadese Mona Awad, uscito il 21 maggio).

US parla di adolescenti che, chiusi nelle proprie stanze (hikikomori è il termine giapponese per indicare chi decide di ritirarsi in una vita che è, per la maggior parte, virtuale, connessa a altre persone tramite schermi), giocano al videogame che dà il titolo al libro e che si sviluppa tramite “campagne” in cui i concorrenti si uniscono in gruppi per sfidarne altri. Ogni “campagna” è ambientata in un preciso contesto storico e l’obiettivo è quello di superare tutti gli ostacoli per giungere alla vittoria finale.

D: Dato a grandi linee il tema narrativo e visto il particolare periodo che stiamo vivendo la prima domanda che mi è venuta in mente (ammetto banale) non può che riguardare lo stare in casa: ritrovarsi quasi d’improvviso in una situazione simile a quella dei protagonisti della tua storia, seppure lì si tratti di scelta autonoma mentre per noi è dovuta a fattori diciamo esterni (taglio sulle responsabilità umane dovute alla diffusione dei virus etc.), cosa ti ha fatto pensare, provare?

R: Innanzi tutto vorrei ringraziarti per le belle parole introduttive, so con quanta stima e affetto segui il mio lavoro, e te ne sono grato.

Venendo all’intervista se non hai niente in contrario chiamerei i miei personaggi principali col nome dei loro avatar, forse proprio perché nella loro forma virtuale – in quanto giocatori di Us – riescono ad essere se stessi più di quanto non lo siano nella loro forma reale, ed è proprio attraverso l’esperienza da avatar – o almeno così immagino io – che Logan, Rin e Hud potranno essere, pienamente, Tommaso, Beatrice e Luca.

Nel rispondere alla tua domanda sento il bisogno di dire che, in me, credo vivano tutti e tre questi personaggi – ho detto altrove, e ce lo siamo detti molte volte nelle nostre chiacchierate al caffè Marini, come sia convinto che nella personalità dell’autore convivano sempre i suoi personaggi, che siano essi parti di un Sé presente, passato o parti di altri che però vivono in noi. In questo periodo, inaspettatamente, ha risuonato in me più Hud che Logan – Logan, per chi ci legge, è l’avatar di Tommaso, il ragazzo ritirato socialmente, il protagonista del romanzo -. Perché, immagino, l’isolamento a cui siamo stati costretti in questo frangente della vita – frangente straordinario, senza dubbio, nel senso di extra-ordinario – totale prima e parziale adesso, è molto diverso da quello di un ragazzo che si ritira socialmente come Tommaso. Il ragazzo che si ritira è spinto a farlo per necessità, perché questa società diventa per lui troppo complicata per essere vissuta, inaccessibile, troppo richiedente, distante dalla propria sensibilità – questo almeno è quello che pensiamo noi terapeuti, probabilmente i ragazzi userebbero parole diverse – e il ripiegarsi nello spazio protettivo della propria casa, o addirittura della propria stanza, diviene l’unica scelta possibile, l’unica via perseguibile se non si vuole rischiare il crollo mentale. Noi, invece, in questi tre mesi siamo stati energicamente tesi verso l’esterno, tesi a riconquistare una parvenza di normalità, tesi a riprodurre – nonostante il distaccamento fisico – una vita che ci sembrasse vicina a quella che vivevamo precedentemente. Penso a ogni forma di contatto virtuale sperimentata, oppure ai canti solidali sulle terrazze o sui tetti intonando il nostro spavento e la nostra malinconia. Penso alle visite virtuali di mostre e musei, forse virtualmente qualcuno ha anche viaggiato, attraverso le strade del web, non potendolo fare di persona. Insomma, abbiamo tentato ogni via percorribile per restare il più aderenti possibile alla forma vitale che animavamo prima. Non ho dunque sentito la mia parte Logan, perché anch’io, come tutti, proteso verso il mondo esterno, soprattutto per ciò che riguarda la mia professione (penso alle video-sedute al posto delle sedute reali, alle chiacchiere – a distanza – coi vicini durante il giardinaggio…). Invece Hud, la mia parte Hud, ha gridato fortemente in me. Quell’Hud che nel gioco è arrabbiato con gli adulti, genitori o insegnanti che siano, incapaci di incuriosirsi dei ragazzi; spaventati dalle novità – vedi i nuovi media – che però loro stessi avevano introdotto quando i ragazzi erano bambini; schiacciati su domande e pretese – educative e scolastiche – anacronistiche, senza capacità di rinnovarsi; indifferenti alle responsabilità di aver prodotto questa società dei consumi, e di lasciare in eredità ai giovani un pianeta sofferente… Hud il selvaggio, Hud il ribelle. La parte dunque più adolescente che si riattiva indignata, non perché il Covid-19 sia un virus costruito in laboratorio e sfuggito a qualche scienziato cialtrone, o addirittura utilizzato con chiare intenzioni malevoli, ma in quanto manifestazione inevitabile di scellerate condotte umane perpetrate per anni (vedi le deforestazioni, l’industrializzazione selvaggia, le condotte alimentari inadeguate, le politiche sanitarie, la disparità sociale, eccetera eccetera) che avremmo dovuto prevedere per farci trovare pronti, con gli strumenti adeguati; oppure addirittura tentare di impedire che si realizzasse.

D: Ecco che scopro che dei tre solo Tommaso/Logan è quello che si ritira nella sua camera, mentre io fraintendendo avevo pensato che tutti avessero fatto quella scelta. Chiarito questo, il primo pensiero va alla scelta dei nomi: Tommaso/Logan, Beatrice/Rin, Luca/Hud. Abbiamo un apostolo/Xmen, una donna angelica/personaggio della serie Inuyasha, un evangelista/personaggio ribelle di un romanzo e di un film (se ci ho azzeccato). Da quel che dici, scelte che tratteggiano anche il carattere dei protagonisti. Parli diffusamente di Logan e Hud, ma non di Rin, e immagino sia legato alla personalità della ragazza, forse mediatrice, forse quella con un comportamento che definiremmo più “normale” tra i tre.

Scrivi che, in questo momento, ti senti più vicino al giovane arrabbiato e ribelle, ma dici chiaramente che il protagonista è Tommaso/Logan e questo mi fa pensare al fatto che chi scrive esplori territori sconosciuti (anche quando riguardano sé) oltre a richiamare l’incipit del primo racconto pubblicato da Beckett, Assunzione, apparso nel 1929 su una rivista francese, e che è questo: “Avrebbe potuto gridare oppure no.”. Beckett fotografa l’istante prima della scelta, ma in quelle parole io vedo sia Hud, che sceglie di gridare, sia Logan, che opta per il silenzio. Porta scorrevole, pillola rossa o blu etc., il prosieguo della storia è diverso ma buona parte del contesto in cui la scelta viene fatta è lo stesso. Certo è presente un contesto personale, familiare, vicino al personaggio, ma questo è creato anche da uno più ampio e lontano e, facendo riferimento alla tua risposta, a “scellerate condotte umane perpetrate per anni”. I comportamenti di Tommaso, Luca e Beatrice sono sì personali, ma non dipendenti esclusivamente dalle loro relazioni più vicine, bensì da un’organizzazione sociale che, stiamo vedendo oggi forse in maniera più evidente, a mio avviso non è adeguata alla vita umana o almeno alla prosecuzione della nostra specie a tempo indeterminato. Nel tuo romanzo, in cui immagino ci sia, pur non avendolo ancora letto, per Logan, Hud e Rin una sorta di conciliazione tra persona/avatar e reale/virtuale, come ne esce la società, la nostra concezione di “normalità”?

R: Partiamo dai nomi. Diciamo che ci hai quasi azzeccato! Tommaso sceglie per il suo avatar il nome Logan, e di Logan, o Wolverine, il supereroe mutante X-men, possiede alcune caratteristiche caratteriali – l’essere schivo e solitario – ma soprattutto vorrebbe possederne la forza, l’agilità, e gli artigli ossei affilatissimi rivestiti di Adamantio che si estroflettono. Chissà se nel corso della storia riuscirà a trovare e conoscere i suoi, di artigli… Ciò che posso dire è che c’è un alter-ego di Tommaso, un altro essere vivente che Tommaso desidera raggiungere per tutto il tempo del romanzo, schivo quanto lui, ma a differenza di lui perfettamente inserito nel suo mondo.

Hud. Quando ero adolescente, negli anni novanta, se amavi il cinema amavi Fuori Orario, Cose (mai) viste, di Ghezzi. Il web ancora non esisteva, o era appena stato inventato, per cui quello era l’unico modo per vedere dei film che uscissero dal circuito più commerciale. Inoltre non potevi certo riprodurlo, come oggi su Netflix e le altre piattaforme cinema, quando preferivi, per cui era necessario passare la notte sveglio, o regolare il videoregistratore affinché ti registrasse il film sulle – oramai tramontate – vhs che giorno dopo giorno andavano aumentando dando forma a vere e proprie torri che svettavano dalle mensole della camera. Un sabato sera, avevo sedici anni, tornai a casa piuttosto tardi, dopo aver passato la serata col mio amico Giacomo Carnesecchi – pittore pistoiese – lui rimase a dormire da me, accendemmo la tv perché non volevo perdermi Fuori Orario, e quella notte Ghezzi aveva deciso di far passare Lo Spaccone, di Robert Rossen, del 1961, e io rimasi letteralmente fulminato da Paul Newman. È stato, ed è tutt’ora, uno degli attori che amo di più, e dopo Lo Spaccone, ci fu Il colore dei soldi, La gatta sul tetto che scotta e molti altri, tra cui Hud il selvaggio. Ecco, il mio Hud, ovvero Luca, voleva assomigliare un po’ all’Hud interpretato da Newman, un uomo allo stesso tempo aggressivo e dolce, incompreso e farabutto, cinico e sofferente.

Ed eccoci a Rin. Beatrice ha scelto per il suo avatar il nome della protagonista di un manga – e poi anime – meno conosciuto che si chiama Usagi Drop. Rin è una bambina inizialmente riservata e silenziosa, costretta già da piccola a elaborare lutti molto dolorosi, circondata da una grande freddezza, fino a quando farà un incontro che le permetterà di scoprire la propria vivacità, la propria generosità… Ma devo aggiungere che non esisterebbe Beatrice, e la mia Rin, senza l’aiuto della mia editor Lavinia Azzone. Lavinia è stata in grado di mostrarmi lati del personaggio che io sentivo, vedevo, ma ai quali non riuscivo a dare parola, e in fondo credo che sia questo che fa un editor quando lavora bene– tira fuori il meglio di un autore, sintonizzandosi sul suo stile e sulle sue potenzialità narrative -. Rin è la parte sensibile della squadra, quella che si affeziona ai personaggi incontrati nel gioco, ma non per questo meno determinata o coraggiosa, e sarà proprio la sua cocciutaggine a costringere Hud e Logan a immaginare un altro Us, un Us che non sia soltanto un videogioco a tratti misterioso, bensì un Us con un obiettivo più ambizioso, quello di costringerli a conoscere il mondo e se stessi. Infine è pur vero che c’è anche Inuyasha! Sebbene non sappia come tu lo abbia intuito, Rin si veste infatti come la sua protagonista Kagome!

Hai colto perfettamente nel segno quando scrivi I comportamenti di Tommaso, Luca e Beatrice sono sì personali, ma non dipendenti esclusivamente dalle loro relazioni più vicine. Per me era importante passare il messaggio che le relazioni affettive, soprattutto quelle coi genitori, sono importanti, per non dire fondamentali, nella definizione della personalità di un individuo, ma non sono tutto. Detto da un terapeuta che ha un indirizzo psicoanalitico è quasi un’eresia, ma ne sono profondamente convinto. La realtà sociale è ciò che, insieme alle loro storie familiari, schiaccia i miei personaggi, e costringe loro a stati emotivi, e a soluzioni difensive, diverse, per certi versi agli antipodi, ma in tutti e tre i casi molto pericolosi per la propria salute mentale. Allora ripensare il rapporto con la realtà è davvero centrale. Quale realtà, però? Quella che conosciamo quotidianamente, che costringe Tommaso all’isolamento, Luca alla ribellione e Beatrice a una condizione di silenziosa malinconia? O c’è un’altra realtà, più articolata e complessa? Us li aiuta a prendere contatto proprio con questa seconda realtà, una realtà più vera, diciamo, più reale, e lo fa nell’unico modo possibile, attraverso la Storia, il Novecento, la memoria, e agli uomini che vi hanno partecipato con tutte le loro multiformi sfaccettature e, paradossalmente, lo fa usando la realtà virtuale… No, la società non ne esce bene, mi dispiace. Dietro la copertina patinata che abbiamo conosciuto – per essere esatti che soltanto alcune società occidentali hanno conosciuto –, si nascondono contenuti in decomposizione, dinamiche che producono orrore. Ma rispetto a La Casa dei bambini la mia riflessione è come progredita, non credo che sia più sufficiente conoscere soltanto la verità – che di per sé è già un nobilissimo e forse irraggiungibile obiettivo – bensì è necessario lavorare sullo spirito che anima gli uomini, formare cittadini in grado di pensare e allo stesso tempo di essere rivolti all’Altro e al nostro pianeta Terra, questi, oggi, sono i due obiettivi più alti dell’umanità, ma li possiamo perseguire soltanto se ricominciamo dai bambini e dai ragazzi. Da adulti possiamo modificare molti aspetti di noi, non farei il mestiere che faccio se non lo credessi, ma non lo spirito, non la visione del mondo, non il nostro modo di partecipare alla vita del pianeta, da adulti temo che i giochi siano fatti. Così torniamo al Covid-19, sono quasi tutti d’accordo – sociologi, economisti, evoluzionisti, storici, antropologi… – e tutti ripetono all’unisono che siamo di fronte a un bivio, a una biforcazione, ora che è crollato l’ultimo piano del palazzo possiamo scegliere se gettarlo definitivamente giù, il palazzo, e costruire, metaforicamente ma anche letteralmente, una nuova casa – magari avvalendoci di nuove tecnologie energetiche – , o ricostruire soltanto il piano crollato. Ma è soprattutto sullo spirito dei nostri figli che noi dobbiamo investire, sulla loro visione del mondo, perché sono loro che costruiranno la società del futuro – case e palazzi metaforici –, altrimenti faremo la fine di Ray Garraty, protagonista de La lunga marcia, incredibile romanzo di Stephen King che ho riscoperto in questi giorni dopo che era rimasto dimenticato in libreria per questi trent’anni. Grazie a La lunga marcia comprendo con quale lucida lungimiranza King avesse immaginato una società del futuro dove il disinteresse per l’Altro, e la venerazione per l’Io, sono così ipertrofici che la società si è inventata una delirante marcia annuale, dove l’intero mondo segue cento ragazzi attraversare a piedi gli Stati Uniti, vedendoli morire uno dopo l’altro, finché l’ultimo rimasto in vita risulterà il vincitore, e allora, quell’uno, potrà chiedere come premio qualunque cosa desideri. Ma dopo la folle marcia, e dopo aver assistito alla morte degli altri novantanove ragazzi, cosa si può desiderare di avere per noi?! E poi non venitemi a dire che King non sia geniale! – per inciso è un libro del 1979, che lui ha scritto nel ’66 circa, quando aveva diciannove anni -.

C’è una campagna, non dirò quale, in Us, che può cambiare le sorti del gioco, ma anche la vita dei ragazzi, come potrebbe cambiare la nostra, se ne conoscessimo meglio la storia. Non dico per dire: è uno di quegli eventi storici che avrebbe potuto cambiare l’umanità, non tanto per ciò che è accaduto, ma per ciò che un grande uomo, e i suoi collaboratori, intorno a degli eventi catastrofici hanno pensato di realizzare. Le soluzioni – squisitamente umane – che hanno trovato…

D: Mi soffermo un attimo su Beatrice e sul suo avatar Rin. Quando ho letto il nome dell’avatar mi è venuto subito in mente il Giappone e il pensiero successivo è corso a Inuyasha. Lo seguivo, anche se non assiduamente, e di sicuro mi sono perso molte parti e il finale, ma nome e cartone animato mi sembravano uniti e il resto l’ha fatto una ricerca in rete. Approfondendo appena, sia la Rin presente nella serie di Inuyasha che quella che nomini tu di Usagi Drop hanno caratteristiche in comune, probabilmente dovute al fatto che in entrambe le serie i nomi siano “parlanti”. Su Fuori Orario mi sembra tu sia stato esaustivo.

Sulle realtà a cui fai riferimento, sul fatto che ce ne siano due, mi sembra non sia tanto questione di numero, quanto di consapevolezza di cosa sia la realtà, e cosa potrebbe essere, diventare. Vi siamo talmente immersi, probabilmente, da non averne una percezione così esatta, da illuderci che sia qualcosa mentre è altro. O può essere anche altro. Rin, da quel che capisco, è quella che per prima guarda a Us non solo per ciò che sembra essere, ma per ciò che potrebbe essere, diventare. Non vede il gioco come statico, ma come mutevole.

Questo fatto, questo nostro osservare ciò che ci circonda come statico è quello che ci porta a tornare ai nostri comportamenti abituali, a ricreare la situazione precedente, a riproporre soluzioni che potevano funzionare in un contesto che, adesso, non esiste più. Trovo però una contraddizione nel tuo procedere: da una parte dici che non hai fiducia nel cambiamento di visione del mondo negli adulti, dall’altra che gli adulti devono formare le nuove generazioni a un approccio diverso nei confronti del mondo. Come si può formare qualcuno se non con l’esempio? Se io non riesco a cambiare la mia visione del mondo come posso pensare che mio figlio (non ho figli: è un esempio) ne abbia una totalmente diversa? E nel caso, riuscirei a accettarla? Forse è anche questo che accade ogni volta: le nuove generazioni riescono a costruire una visione diversa che gli adulti ritengono non accettabile, che la società rifiuta e le costringe alla ribellione o reclusione, o isolamento. E noi adulti oggi non ci siamo poi comportati così diversamente da chi ci ha preceduto, se diamo uno sguardo. Perché in fondo incapaci di avere una visione diversa del mondo, anche se ci è stato parlato di ambiente, di malnutrizione, di salute mentale, di solidarietà fin dall’infanzia; perché gli adulti poi non sono troppo in grado di cambiare la propria visione, che poi è quella degli adulti di prima, e di prima ancora etc. Non so. Questo mi fa tornare al romanzo, e a quel che dici sulla piega presa dalla storia (e dalla Storia) intorno a un determinato evento. Siamo partiti parlando di tre adolescenti che giocano al computer, siamo passati all’importanza delle relazioni anche non familiari, quindi al tentativo di offrire una visione diversa del mondo, per poi arrivare all’importanza fondamentale di singoli eventi, di azioni di poche persone, che hanno influenzato non solo il loro presente ma persino il nostro e il futuro. Un battito d’ali di un similcoleottero su un pianeta alieno provoca una pioggia di meteoriti sul nostro?

R: Non so se mi sto contraddicendo, forse sì, probabile, ma io non intendevo dire che gli adulti sono tutti da gettare, ciò che intendevo dire è che è più complicato portare gli adulti a cambiare il loro punto di vista, a mettersi in discussione, a riconoscere che l’altro può avere ragione, e noi torto. Perché il cambiamento è difficile, talvolta molto doloroso, cambiare comporta rimettere in discussione decisioni alle quali talvolta abbiamo sacrificato anni della nostra vita, o certezze incrollabili che sono state il nostro approdo e la nostra salvezza. I bambini e i ragazzi sono più plastici, la loro identità è ancora in formazione, hanno voglia di capire, conoscere, mettersi in discussione. Per cui gli adulti sono importanti, gli adulti maestri, forse più gli insegnanti che i genitori in tal senso. Il genitore deve amare, sostenere, delimitare, offrire modelli – certo – come dici tu, e quando è un buon genitore, pensare ai propri figli come separati da sé, non come continuità o appendice di se stessi, deve cioè essere in grado di riconoscere l’unicità del proprio figlio e permettere a questa di manifestarsi, anche se distante dal proprio percorso, dal proprio ideale. Ma i genitori sono anche ostaggi del legame affettivo, della paura, dell’ansia della perdita, della passione idealizzante… L’insegnante invece, gli insegnanti, hanno la fortuna di essere più neutri, più super partes, più liberi. Lo considero uno dei mestieri più utili, nutrienti ed entusiasmanti dell’uomo, se però venisse valorizzato quanto meriterebbe, protetto e tutelato, e con questo intendo dire che – ahimè – non tutti possono essere dei buoni insegnanti: l’insegnante ha davvero bisogno di essere formato, quando in Italia, per certi ordini di insegnamento, questo non è minimamente contemplato. Insegnare è prima ancora che trasmettere delle conoscenze – etimologicamente – tirare fuori, liberare. Questo, credo, significa aiutare ogni bambino, e poi ogni ragazzo, a trovare la propria strada, a esprimersi liberamente – nel rispetto della libertà altrui – nell’imparare a pensare liberamente, a riflettere, a sviluppare una coscienza critica. Dice sempre il maestro Franco Lorenzoni, che in questi anni come uno dei suo alunni io seguo come un faro – discendente a mio modo di vedere di quei Lodi, Freinet e Langer che tutti gli insegnanti dovrebbero conoscere – che una comunità si fonda sulla curiosità, curiosità per l’altro prima di tutto, e sulla possibilità di stupirsi. Fare scuola dice Lorenzoni non è interrogare sulla conoscenza che ti ho fornito, ma offrire degli stimoli, un racconto, un mito, un teorema, per capire come tu trasformi quello stimolo in una conoscenza, che tipo di lavoro fai tu, con il tuo filtro personale il tuo modo di essere… Montaigne diceva se io do da mangiare un piatto di spaghetti a qualcuno e quel qualcuno mi ributta fuori un piatto di spaghetti qualcosa non è andato bene, ci deve essere sempre un processo di digestione, i ragazzi non devono vomitare fuori ciò che noi gli abbiamo dato, ma con quello costituire nuove cellule, pelle, muscoli, organi attraverso il loro processo di conoscenza. Come vedi non si tratta, secondo me, di offrire dei modelli, o non solo, ma di lasciare che ognuno possa nutrirsi dal patrimonio incredibile che umanità e pianeta Terra ci offrono. Certo, sullo sfondo una cornice etica c’è, io la vedo e la penso, ma è una cornice davvero molto semplice – in teoria – rispettare l’Altro da noi, accettarlo in quanto uomo diverso da noi, ma uomo quanto noi. Questo mi permette di tornare a Rin e Us. Rin è la parte sensibile del gruppo, quella più ricettiva e, in un certo senso, quella che patisce meno il rapporto con il fuori, con il mondo oltre Us. Nella penultima campagna (non posso svelare il luogo), che io ritengo essere il cuore del libro, come dicevo prima, Rin guida i compagni a scegliere una soluzione che rappresenta anche una scelta di vita, la scelta di tendere la mano all’Altro, al nemico. È ciò che di fatto sceglie di fare anche il personaggio storico narrato nel gioco, quel gesto ha rappresentato, per me, ma credo universalmente, la più alta soluzione umana a un conflitto, difficile trovare nella storia dell’umanità una capacità altrettanto grande di sondare l’animo umano e di integrarne ogni aspetto, anche i più terrificanti, in una soluzione costruttiva. Ma sarà Logan o, meglio, Tommaso, a dare voce all’insegnamento di Rin, e del misterioso personaggio, non più nella realtà virtuale protetto dal guscio dell’avatar, ma in quella quotidiana dove ci muoviamo in carne e ossa. Per capire questo passaggio, però, è necessario leggere il libro!

Qui si conclude la conversazione: speriamo di aver offerto buon cibo e di aver stimolato la curiosità di leggere US.

Edizione esaminata e brevi note

Michele Cocchi (Pistoia, 1979) lavora come psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza. I suoi racconti sono apparsi su riviste e su antologie. Nel 2010 ha pubblicato la raccolta Tutto sarebbe tornato a posto (Elliot), finalista come libro dell’anno di Fahrenheit. Il suo primo romanzo è La cosa giusta (Effigi, 2016). Con La casa dei bambini (Fandango, 2017) ha vinto la XXXVII Edizione del Premio Comisso. Us (Fandango, 2020) è il suo terzo romanzo.

Michele Cocchi, Us, Fandango, 2020