C’è una dolcezza amara in questo romanzo. È forse la dolcezza dell’inevitabile, del finale che si conosce fin dal principio e non può essere lieto. “Le gratitudini” è il mio primo accostamento a Delphine de Vigan e alla sua scrittura scarna, filiforme, lieve. Uno stile che sembra quasi stridere con la mestizia di quel che viene raccontato. La delicatezza di una scrittura tanto femminile e tanto premurosa sembra prendersi cura di ciò che si descrive ma anche di chi lo sta leggendo. “Le gratitudini” è una storia senza rancori e senza vittimismi anche se ci si trova al cospetto di una malattia che non lascia scampo, anche se di fronte al lento svanire delle parole di chi invecchia inevitabilmente, ci si sente smarriti e impotenti.
La perdita delle parole dette o scritte è un abisso per una persona che delle parole ha fatto il suo lavoro. Michèle Seld, che tutti chiamano Michka, ha corretto testi per una vita. Ora è piuttosto anziana e, soprattutto, sola. Non ha marito, non ha figli. Però ha Marie, una giovane donna che le vuole bene come fosse sua madre. Perché la vera madre di Marie spesso non ce la faceva e Marie ha trovato in quella vicina gentile e attenta tutto l’affetto di cui, bambina, aveva estremo bisogno. Michka non può più restare sola, deve essere ospitata in una struttura in cui potrà essere accudita e curata. Sta perdendo le parole, l’afasia fa evaporare i suoni, confondendo le sillabe e la volontà di pronunciarle a dovere. Deve andare via, Michka. “Si tira dietro la porta dell’appartamento, quella porta che ha chiuso centinaia di volte, ma oggi sa che è l’ultima. Ci tiene a girare personalmente la chiave nella serratura. Sa che non tornerà piú. Non farà mai piú quei gesti che ha ripetuto centinaia di volte, accendere il televisore, lisciare il copriletto, lavare una padella, abbassare le tapparelle quando c’è il sole, appendere la vestaglia al gancio in bagno, sprimacciare i cuscini del divano per ridargli una forma che hanno perso da tempo“.
Il racconto è un racconto a due voci e nessuna delle due appartiene a Michka. La storia, infatti, ci arriva dalle parole di Marie e di Jérôme, il giovane ortofonista che aiuta l’anziana signora a fare esercizi per riuscire a non perdere tutto troppo in fretta. L’affetto per Michka nasce naturale anche in Jérôme che è perfettamente consapevole di quel che aspetta Michka e di quel che accade quando si sceglie di lavorare con persone anziane. “Amo il tremolio delle loro voci. Quella fragilità. Quella dolcezza. Amo le loro parole travestite, approssimative, smarrite, e i loro silenzi. E conservo tutto, anche dopo che sono morti. La signora Seld l’ho registrata a partire dalla quinta o sesta seduta. Ho tenuto tutto“.
Poi c’è una piccola storia dentro la storia. Una piccola storia che avrebbe potuto non esserci ma che, nell’impostazione del romanzo, deve aver avuto il suo senso. “Le gratitudini”, quali? La gratitudine di Marie nei riguardi di Michka, certo, ma anche quella di Michka nei confronti di chi, ai tempi delle persecuzioni contro gli ebrei, nei primi anni Quaranta in Francia, si prese cura di lei bambina salvandola dalla deportazione e dai forni crematori. Prima di andar via per sempre, l’anziana signora Seld vorrebbe ringraziare chi l’ha presa con sé nascondendola e consentendole di sopravvivere ai suoi genitori. Come può Michka rintracciare quelle persone? Come può dopo tanti anni ringraziare chi, senza chiedere nulla in cambio, le ha permesso di rimanere viva?
C’è anche questo ne “Le gratitudini”: il senso del bene da fare e da dimenticare. “Fai bene e scorda”: una regola antica che, a volte, le persone non sanno rispettare come si dovrebbe. “Le gratitudini” è una lettura dolcemente malinconica ma mai frustrante, mai penosa. Michka sfuma come sfumano le sue parole e Marie e Jérôme sanno capire e sanno amare ogni istante trascorso con lei. In questo romanzo ho rintracciato, fondamentalmente, due insegnamenti vitali. Primo: è necessario dire il proprio amore prima che il tempo scada. Secondo: accettare l’idea di lasciar andare chi si ama è una delle forme d’amore più potenti e pure che si possano vivere.
Edizione esaminata e brevi note
Delphine de Vigan è nata a Boulogne-Billancourt il 1º marzo 1966. Ha esordito come scrittrice in Francia nel 2001 con “Giorni senza fame”. Sono seguiti, tra gli altri, “Gli effetti secondari dei sogni” (Prix des Libraires 2008), “Niente si oppone alla notte” (Prix du roman Fnac, Grand prix des lectrices de Elle e finalista al Prix Goncourt 2011) e “Da una storia vera” (Prix Renaudot e Prix Goncourt des lycéens 2015). Per Einaudi ha pubblicato “Le fedeltà invisibili” nel 2018 e “Le gratitudini” nel 2020.
Delphine de Vigan, “Le gratitudini“, Einaudi, Torino, 2020. Traduzione di Margherita Botto. Titolo originale “Les gratitudes“, Éditions Jean-Claude Lattès, Paris, 2019.
Pagine Internet su Delphine de Vigan: Wikipedia / Open Library / Rai Cultura
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