Tinti Bruno

La questione immorale

Pubblicato il: 10 Ottobre 2009

Un anno dopo il successo di “Toghe rotte” si replica. Questa volta però Bruno Tinti, ormai ex magistrato e fresco collaboratore del quotidiano “Il fatto”, possiamo definirlo autore a tutti gli effetti, mentre nel precedente saggio-pamphlet appariva soprattutto come curatore di un’opera corale dove alcuni giudici e procuratori si raccontavano (anonimi) alle prese con lo sfascio della macchina giudiziaria. “La questione immorale” segue a ruota, e il nostro Tinti, come volendo passare “dalla protesta alla proposta”, continua a proporci un tema che pare essere ancora oggetto misterioso presso tutti i media generalisti italiani e, paradossalmente, anche presso i futuri operatori del diritto, troppo condizionati da uno studio del diritto che si nutre di principi astratti e soprattutto interpretati ad uso e consumo di interessati avvocati e politici intenti a pararsi le terga.

Venti anni che bazzico certo mondo mi induce a fidarmi più dell’ex magistrato che dei Ghedini della situazione, tanto per dire. Ma entriamo nel merito del libro. Innanzitutto Tinti ci ricorda quale siano i problemi (presunti) che la classe politica, nella sua veste bipartisan e inciucista, ci spaccia come da risolvere al più presto: la separazione delle carriere, la non obbligatorietà dell’azione penale, la responsabilità civile dei magistrati (ma non c’era già la L. 117/88?), il blocco delle intercettazioni telefoniche e via e via allarmando. Un’urgenza che ha una sua verità, ma forse – considerazione personale – più per la protezione delle citate terga che per l’effettiva funzionalità di quella macchina giudiziaria già sfasciata da decenni di “leggi ad personas”. In altri termini – qui Tinti non usa troppi giri di parole – l’autore ci spiega i meccanismi con cui i politici, col pretesto di regalarci un futuro di diritti e una normativa in linea con i grandi principi di civiltà, vogliono ottenere il controllo dei magistrati e la garanzia dell’impunità. A grandi linee, almeno noi lettori e cittadini meno sprovveduti, già lo sappiamo: togliendo l’iniziativa al P.M., metterlo alle dipendenze dell’esecutivo, sottrargli il controllo della polizia giudiziaria; e poi limitare le intercettazioni da parte della magistratura, mentre polizia, servizi e quindi il governo per motivi di sicurezza, vera o presunta, possono intercettare migliaia di cittadini. Un quadro che si è venuto delineando sempre più in questi anni, da quando si è capito che le sole leggi ad personam non potevano essere sufficienti per assicurare l’impunità per se stessi, per i propri scherani e per i compari della finta opposizione.

A Bruno Tinti, proprio come nel caso del precedente “Toghe rotte”, va riconosciuto il merito di raccontarci una situazione drammatica ed anche complicata (si tratta pur sempre di una normativa di non facile comprensione, sia per i neofiti del diritto, sia per coloro che, usciti dalle aule universitarie, hanno ricevuto una formazione puramente teorica), con uno stile colloquiale, a volte fin troppo, e comunque con particolare chiarezza espositiva. Si sente spesso dire che le riforme prossime venture della giustizia sarebbero fatte proprio per renderci finalmente in linea con quanto accade negli altri paesi garantisti dell’occidente democratico. Vogliamo crederci? Se volete proprio crederci allora farete bene a non leggere “La questione immorale”. Le organizzazioni giudiziarie e le normative di stati come gli USA, la G.B., la Francia sono qui descritte con tutti i loro limiti (e pregi). In altri termini, dopo aver affrontato, seppur in maniera sommaria, la comparazione dei più importanti sistemi giudiziari dell’occidente (con queste pagine “La questione immorale diventa qualcosa più di un polemico pamphlet), viene posta la domanda chiave di tutto il libro: se il sistema di reclutamento dei magistrati stranieri è pessimo e il nostro ottimo, perché loro stanno meglio di noi?

Così Tinti: “mentre il controllo che la politica opera sulla magistratura per assicurarsi di non essere sottoposta al controllo di legalità avviene in via diretta (ufficialmente o ufficiosamente), il sistema giudiziario resta intatto e può funzionare in maniera efficiente per tutto ciò che attiene ai consueti rapporti del vivere civile…… Corollario di questa riflessione è che, nel nostro Paese dove questo controllo diretto è – era (i casi  Forleo e De Magistris rischiano di aprire una nuova fase) – impossibile, la sottrazione della politica al controllo di legalità avviene mediante tre drammatici strumenti: le leggi ad personam, la delegittimazione dei giudici, la delegittimazione della legge” (pag. 33). Qualche altro passaggio significativo: (I politici) “hanno delegittimato il concetto stesso di legalità “e “i cittadini imparano della loro classe dirigente” (pag. 41). “Alla fine è evidente che l’obiettivo è quello di trasformare il Pubblico Ministero: da magistrato autonomo e imparziale ad avvocato dell’accusa. Insomma oggi , con la classe politica attuale tesa a difendere la propria impunità, ciò significherebbe la  morte della legalità e della democrazia” (pp.135). In merito alla risibile ma purtroppo molto diffusa idea di P.M. quale “avvocato dell’accusa”:  “Per il Pubblico Ministero non è importante che l’imputato venga condannato, è importante che il colpevole sia condannato. E quindi, se l’imputato non è colpevole, il PM ha l’obbligo di chiedere che venga assolto. Alla fine, nel PM, si riassume il ruolo di accusatore e difensore” (pag. 136).

Sull’eventualità della separazione del P.M. dalla polizia giudiziaria: “ è ovvio quello che potrebbe succedere: massima solerzia e disponibilità per spaccio di droga, omicidio dell’amante e del coniuge (ma per il coniuge un po’ di più) sequestro di persona, rapina alle poste, furto al supermercato. Ma  nel caso si cominciasse ad indagare su frodi fiscali, falso in bilancio, riciclaggio, corruzione, peculato, abuso d’ufficio, finanziamento illecito dei partiti allora, caro Pubblico Ministero, gli uomini sono quelli che sono, c’è tanto da fare, la sua richiesta sarà evasa prima possibile” (pag. 144).

Ai riferimenti tecnici e normativi perciò si accompagnano le osservazioni di coloro che vivono giorno per giorno la realtà demoralizzante e complessa della macchina giudiziaria; non fosse altro che ogni riforma creata per aumentare lo scudo a protezione dei potenti “non incide solo sui loro processi: aumenta l’inefficienza dell’intero sistema”. Osservazioni peraltro apparentemente ovvie ma, non a caso, sempre trascurate da parte dei media. Nella seconda e terza parte del libro in “Riforme impossibili” e “Riforme possibili”, l’autore spiega come si potrebbe far  funzionare al meglio la macchina della giustizia italiana, magari abbandonando quel “giusto processo” (vedi art. 111 C.) che poi tanto “giusto” non è, e soprattutto le leggi fatte per non funzionare (in “La questione immorale” di esempi concreti ne troviamo a iosa). E per replicare a chi ha tacciato Tinti di essere una “toga rossa” basta leggersi un suo brano autobiografico su una vicenda risalente al 1980, nella quale dei sindacalisti impedivano l’accesso alla fabbrica ai loro colleghi non scioperanti, con i carabinieri che, su input politico, facevano resistenza alle indagini dei magistrati (rossi?).

Così viene raccontata la conversazione tra un appartenente all’Arma e un suo superiore: “Olio tra le parti signor colonnello, ho capito signor colonnello,  non esacerbiamo gli animi,  non è il momento delle denunce signor colonnello”. Su questo olio che si voleva dispensare con tale disinvoltura così il nostro ex magistrato: “Se non avessimo cercato, un gran numero di reati sarebbe stato commesso impunemente e l’intero paese avrebbe constatato che prepotenza, violenza e complicità pubbliche rendono utile e impunita l’illegalità” (pag. 147). Insomma lì di “rosso” c’era proprio poco, anzi nulla. Però lo sappiamo come vanno le cose in Italia e come, a distanza di vent’anni dalla caduta del sistema sovietico e ancora pieni di comprensibili rancori, una delle più tremende eredità del comunismo sia l’anticomunismo usato per farsi gli affari propri. Insomma, per dirla col nostro ex magistrato, “una giustizia che funzioni pare proprio faccia troppa paura”. Per essere ancora più precisi: a me e ad altri di voi non penso farebbe paura, ma a qualcuno dei nostri zelanti riformatori credo proprio di si. Sarò malfidato

Edizione esaminata e brevi note

Bruno Tinti (19 dicembre 1942, Roma), ex procuratore aggiunto presso la Procura di Torino.  Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni in convegni in materia penale tributaria e penale societario. Dal dicembre 2008 ha lasciato la Magistratura. Nel 2007 ha pubblicato con successo il libro Toghe rotte (ChiareLettere, 85mila copie), che è anche il titolo del suo fortunato blog sulla giustizia. Collabora a “Il fatto”.

Bruno Tinti, La questione immorale, Chiarelettere, Milano 2009

Recensione pubblicata il 10 ottobre 2009  su ciao.it e qui parzialmente modificata

Luca Menichetti, lankelot ottobre 2009