Tinti Bruno

Toghe rotte

Pubblicato il: 2 Maggio 2009

La presentazione più efficace di “Toghe rotte” è proprio la breve prefazione di Marco Travaglio: dieci pagine che fotografano perfettamente l’intento di Bruno Tinti e dei suoi anonimi colleghi; ed anche la descrizione devastante di come sia mal messa la giustizia italiana. Conviene riportarne un brano: “Il quadro che ne esce è realistico fino alla brutalità, dunque diametralmente opposto alla vulgata corrente. Il quadro di un paese dominato da almeno quattro diverse culture immunitarie stratificate e incrociate: quella molliccia e mafiosetta del familismo amorale; quella giustificazionista dei cattolici all’italiana, sempre pronti all’indulgenza e al perdonismo; quella deresponsabilizzante e anti-istituzionale del sinistrismo anni ’60 e ’70, per cui “è sempre colpa della società” e del “modello di sviluppo”; e quella losca e affaristica dell’aziendalismo anarocoide, perfettamente incarnata dal cavalier Berlusconi e dalla sua fairy band, ovvero tolleranza mille per i colletti bianchi e tolleranza zero per i poveracci”.
L’autore-curatore, due anni fa ancora in carriera quale Procuratore aggiunto presso la Procura di Torino e specializzato nell’inseguire i reati finanziari, con questo saggio di grande successo ha dato voce ad un sentire diffuso tra i magistrati e anche tra tutti coloro che, avendo avuto a che fare con i tribunali, non si fanno incantare dalla disinformazione dei media; come se in Italia, con buona pace di fantasiosi editorialisti tipo il prof. Whitebread, il problema fosse il “giustizialismo” e quei loschi individui illiberali, addirittura contrari ad indulti e leggi ad personam.
Incazzarsi perché il novantacinque per cento dei processi penali finisce nel nulla non so se voglia dire giustizialismo: basta intendersi sul significato delle parole. Quello che in altri paesi vuol dire almeno centocinquanta anni di carcere (tipo reati fiscali, falso in bilancio e così via), da noi significa elezione al Parlamento; e magari pure diventare presidente del consiglio.

Non deve perciò meravigliare se qualcuno di noi potrà intendere in altro senso il liberalismo, la giustizia, l’efficienza della procedura penale e civile.
“Toghe rotte” è un saggio scritto con uno stile brillante, molto scorrevole, senza velleità dottrinali, ma che, proprio in virtù del suo svelare la concreta applicazione di quei codici e leggi che ci sono state raccontate come espressione di grandi principi di civiltà, rappresenta un atto di coraggio in questa Italia di conformisti e parolai.
Un atto di coraggio premiato sicuramente con la vendita di tante copie del libro, ma comunque una voce non allineata né con la casta politica di governo e della pseudo-opposizione, né con le correnti corporative della magistratura.
Raccontare le cose come stanno da noi, soprattutto quando si entra nel campo della cosiddetta “giustizia”, non è la regola ma l’eccezione.
Una descrizione di inefficienza kafkiana che da un lato potrà irritare coloro, militanti ed adoranti politici, che vogliono credere a tutti i costi alla favola dello Stato di polizia in mano a magistrati stalinisti; e dall’altro un quadro che potrà spiazzare tutti quei lettori, magari pure con alle spalle studi giuridici, che mai avrebbero pensato di veder ridotti così i principi del “giusto processo”.
Chiunque si sia fatto un mazzo tanto sui tomi di diritto e abbia avuto poi la sfortuna di vedere cosa succede veramente nelle aule di tribunale, sa di cosa parlo. Ne consegue che per molti di noi “Toghe rotte” non racconta nulla di nuovo, niente di cui non si sia in fondo consapevoli.
Leggere in poco più di centocinquanta pagine la descrizione di tali inefficienze e assurdità, tutto d’un fiato, fa comunque un certo effetto: in altri termini la dimostrazione di come tra la teoria, le dichiarazioni di principio e la pratica ci sia un abisso. Altro merito del libro, come ben sottolinea ancora una volta Travaglio, è quello di “smontare con esempi concreti tutti i luoghi comuni dei nostri politici che fanno il pianto greco ogniqualvolta finisce sotto inchiesta un membro della casta, anzi della cosca. Per esempio le litanie sulla “violazione del segreto istruttorio” (che non esiste più dal 1989) o della “privacy” (che viene meno quando sono in ballo personaggi pubblici coinvolti in indagini giudiziarie). Come se il problema non fossero i fatti scoperti dalla magistratura ma la pubblicazione delle notizie sui giornali”.
Le inefficienze del sistema giudiziario italiano e le prospettive di prossime riforme, foriere di ulteriori abomini, sono evidenziate da grotteschi episodi di ordinaria ingiustizia e dove i magistrati si sbattono di lavoro pur sapendo che tutto quello che fanno sarà inutile in previsione delle inevitabili scarcerazioni, condoni, prescrizioni.

Al di là di questa aneddotica, il cui piglio quasi divertente mette ancor più in risalto le storture di un ingranaggio che fa a pezzi dignità e buon senso, “Toghe rotte” in “Corso accelerato di diritto e procedura pena”, presumibilmente ad opera proprio di Bruno Tinti, toga tutt’altro che “rossa”, ci descrive cosa vuol dire l’applicazione dell’attuale codice di procedura, della legge Gozzini e di tutte le riforme salva ladri promulgate in un paese sempre più allergico alle regole, ma che appunto per questo ne produce in quantità: ne discende un barlume di consapevolezza che, paradossalmente, non è proprio possibile ricavare con lo studio dei codici e dei poderosi manuali istituzionali di procedura e diritto. A quel punto, abbandonate per un attimo le impegnative considerazioni dottrinali dei nostri professori universitari, possiamo capire come mai le galere italiane sono abitate da un ottanta per cento di tossici e piccoli delinquenti, mentre chi ruba miliardi ha la prescrizione assicurata; e sta a casa sua.
In altre parole: “una procedura penale del genere non esiste in nessun altro paese del pianeta. Cercate e vedrete che siamo gli unici a tutelare gli imputati instigandoli a fuggire dal processo” (pag. 43); ovvero una giustizia ad oggi programmata per non funzionare, che per diventare efficiente necessiterebbe di poche e semplicissime soluzioni. Se solo si volesse.
In questo senso viene alla mente Davigo quando, serissimo, ci diceva come la migliore riforma della giustizia consisterebbe nell’abrogazione dei nostri attuali codici e nell’adozione di quelli svizzeri.
E poi ancora nel capitolo “Si fa ma non si dice” parole semplici e chiare per distinguere la cosiddetta questione morale dalla questione penale.
Mentre Vaclav Havel descriveva la magistratura come “il potere dei senza potere”, ovvero un’amministrazione che serve ai più deboli, qui in Italia pare che se ne sia data un’interpretazione opposta, quale strumento volutamente inefficiente per rendere la vita facile ai potenti pieni di grana e la vita difficile ai poveracci senza santi in paradiso.

“In Italia la Giustizia è diventata una macchina per tritare acqua” (Gherardo Colombo)

“In Italia l’unica vera rivoluzione sarebbe una legge uguale per tutti” (Ennio Flaiano)

Edizione esaminata e brevi note

Bruno Tinti (19 dicembre 1942, Roma), ex procuratore aggiunto presso la Procura di Torino.  Autore di pubblicazioni, articoli e relazioni in convegni in materia penale tributaria e penale societario.

Bruno Tinti, Toghe rotte, Chiarelettere, Milano 2007

Recensione già pubblicata nel maggio 2009 su ciao.it e qui parzialmente modificata

Luca Menichetti, lankelot maggio 2009