Walcott Derek

Egrette bianche

Pubblicato il: 9 Febbraio 2021

Frequento il laboratorio creativo di Derek Walcott da quando vinse il Nobel nel lontano 1992. Avevo sedici anni e riconoscevo in lui un faro per i miei primi impetuosi, caotici, furiosi, eroici tentativi poetici. Il suo libro di allora, un meraviglioso Adelphi, negli anni in cui questa casa editrice mi apriva continuamente orizzonti inesauribili di conoscenza, s’intitolava “Mappa del Nuovo Mondo”. Divenne ben presto per me un breviario, un libro che mi seguì per giorni come un ‘ombra fedele e fatale.

Da allora acqua molta è passata sotto i ponti, in un’occasione milanese alla presentazione di un suo libro ebbi modo di conoscerlo, scambiare con lui qualche parola nel mio stentato, scolastico inglese. Lo ringraziai per tutto, mi rivolse uno sguardo d’incerta e probabilmente inquieta diffidenza, ci stringemmo comunque la mano. In seguito mi avrebbe autografato “Mappa del Nuovo Mondo” che tuttora conservo nel caos della mia biblioteca.

Anni dopo lessi “Prima Luce” trovando ostico il florilegio caraibico e la fauna sconosciuta di cui consiste ma apprezzandone la concretezza visionaria e la precisione linguistica, lo sfavillio di forme naturali racchiuse nello zaffiro dello stile.

A distanza di quasi trent’anni dal primo incontro letterario, casualmente m’imbatto in questo “Egrette bianche”, edito sempre da Adelphi nel 2015, nella traduzione di Matteo Campagnoli, ed è ancora una rivelazione. Ora più che mai sono pronto a cogliere la nitida combustione visiva di queste parole, arse dalla luce caraibica ma non solo perché questo testo circumnaviga il mondo dalla Sicilia all’Andalusia passando per New York, Amsterdam, Milano, Londra, Stoccolma, rivelando che tanto più un poeta è radicato nelle proprie origini – caraibiche in questo caso – Walcott era nato nell’isola di Santa Lucia – tanto più esperisce la vastità dell’erranza.

Walcott distilla un canto che è uno squarcio di luce nel buio di profonde meditazioni, ruminazioni poetiche quasi che esse fossero il combustibile per questa esplosione di luce elegante e mai chiassosa. E colpiscono sentenze che diventano paesaggi, paesaggi in cui si decifrano lemmi come in un braille dove il poeta legge e trova i suoi amici morti, le sue floreali bellezze, i suoi simboli alchemici per trasformare la vecchiaia in stralunata lucidità, le sue epifanie muliebri, e anche le sue scettiche arguzie di invecchiato bene nell’oceanica bellezza che divenuta Sfinge sembra chiedergli: ”È per questa bellezza che sei dunque vissuto? Che i dépliant pubblicitari imprigionano e che solo il soffio della parola poetica può liberare dal cliché cartolinato?”

Perché non c’è una vecchiaia in disarmo e disincantata in questi versi ma una scrittura potente che elabora costantemente un reincanto del mondo, una scrittura in cui il dato naturale esulta fino a sfiorare il marmo di una sentenza felice, accarezzando la sfinge di una sapienza mai arrogante sempre umilmente tesa a racchiudere le contraddizioni di un reale che non cessa di incantare il poeta, suo cantore e custode.

Si ammira l’impasto di luci, colori, profumi, impasto pittorico, Walcott fu anche pittore di talento come si vede dal suo quadro che fa bella mostra di sé in copertina. Così il poeta s’immerge e ci fa immergere in un mondo scintillante di una vita colta nel suo brulichio, nel suo inesausto formicolio di eventi, uomini, animali, luoghi, che si susseguono come per fondare un affresco dove alla vitalità è restituita tutta la sua indeterminata vibrazione. Siamo in Sicilia, per esempio, ma nell’occhio trasfigurante del poeta essa non è diversa nella sostanza naturale, fuggevole ma in qualche modo immutabile, dall’Andalusia o dalla sua nativa Santa Lucia. Riflessioni sulla vecchiaia scuotono i luoghi comuni su di essa e forniscono autoritratti del poeta in cui la vita tarda specchiandosi nella giovinezza riscopre la sensualità primigenia o quantomeno la nostalgia della stessa. Le egrette del titolo sono emblemi, “incedono nella pioggia/come se nulla di mortale potesse toccarle, o prendono il volo/come angeli bruschi”. Altrove hanno l’amara consapevolezza dei rimpianti, assomigliano a essi e sono ”strofe mai scritte” di quella partitura che il poeta suona sinesteticamente con i colori ebbri della propria tavolozza emozionale. Quella di Walcott è una poesia composita in cui l’inglese si fonde con il creolo, la luce dei caraibi con l’illuminazione artificiale di Londra, i chiarori della Sicilia con i neon milanesi. È l’incanto delle rondini che scrivono, come gli storni, nel cielo un alfabeto ancestrale di pittogrammi, che rendono questa poesia una ricognizione sensoriale fra odori, profumi, musiche, gesti, sapori quasi a esperire la sostanza tattile, sonora, visiva, dei luoghi visitati.

Ci accompagna in questo viaggio per il mondo questo poeta ormai anziano la cui parole sono così concrete da sorvolare la pagina come uno stormo di passeri, il cui specchio sembra ”volere un’altra faccia”, non smettendo mai di lodare quella luce che sembra benedire il mondo e che svaria da “un muro di cotto a Napoli” o rende epica e misteriosa la “sgargiante Venezia” e ancora inizia a dilagare nella campagna andalusa all’alba.

Edizione esaminata e brevi note

Derek Walcott è stato un poeta e scrittore santaluciano, insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1992, noto soprattutto per le sue opere poetiche e teatrali in lingua inglese. Poeta caribico di lingua inglese, dal 1981 ha insegnato scrittura creativa alla Brown Univeristy di Providence, negli USA. Adelphi ha pubblicato sue diverse opere fra cui: “Mappa del Nuovo Mondo” (1992) “Prima luce”(2001), “Omeros” (2003), “ La voce del crepuscolo”(2013).

Derek Walcott, Egrette bianche, traduzione Matteo Campagnoli, Adelphi, Ottobre 2015

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