Puškin Aleksandr

Eugenio Onieghin nei versi italiani di Giovanni Giudici

Pubblicato il: 24 Agosto 2021

È noto che voler parlare della vera poesia è come setacciare l’acqua: il meglio passa tra le maglie; stesso destino in un certo modo ha la traduzione poetica che non riuscirà mai a rendere a pieno i ritmi, le risonanze e i fonemi di un originale. Cosa tanto più vera per un’opera come l’Eugenio Onegin, il capolavoro di Aleksandr Sergeevič Puškin, definito dal suo autore un «romanzo in versi», un testo ricchissimo di soluzioni ritmiche raffinate e del tutto nuove, il quale ha segnato la vera nascita della lingua letteraria russa. Se opere come quella puskiniana sono giunte fino a noi il merito va ascritto a una confraternita di traduttori, veri artigiani della parola, i quali con dovizia e cura hanno sfidato l’eterna difficoltà della traduzione poetica, cercando di rendere nella lingua di destinazione i loro versi immortali. A un tale compito sul poema puskiniano si è dedicato per anni a partire dai ’70 Giovanni Giudici, egli stesso poeta, uno degli esponenti dei post-lirici del secondo novecento italiano (fra di essi è inserito nel volume antologico Einaudi del 2005 curato da Enrico Testa dal titolo Dopo la lirica – poeti italiani 1960-2000), e oggi, dopo l’edizione Fogola del 1990 e quella nella collana Gli Elefanti di Garzanti, senza dimenticare la versione in prosa per Bur curata e tradotta da Eridano Bazzarelli, va riconosciuto a Scalpendi Editore il grande merito di aver riproposto lo scorso maggio in un formato che non difetta di fine eleganza Eugenio Onieghin nei versi italiani di Giovanni Giudici, questo il titolo (pag. 247 euro 12,50). Fino all’edizione del 1983, pur parlando già da quella del 1975 di collocazione del suo lavoro «nell’ambito della letteratura italiana» e di un «momento della sua ricerca poetica», il nome del poeta ligure si legge solo nel ruolo di traduttore; sarà invece da allora che se ne parlerà come vera e propria creatura letteraria; e il titolo appunto non è più Evgenij Onegin, bensì Eugenio Onieghin di Puškin in versi italiani.

Per la stessa casa editrice milanese e nella medesima collana Per l’alto mare aperto diretta da Edoardo Esposito, è uscita in contemporanea anche una delle prime raccolte poetiche di Giudici, La vita in versi, un bel binomio poetico da non mancare per entrare nell’officina della parola di una grande per quanto semisconosciuta voce del nostro secondo Novecento, sia che questi si cimenti nella composizione poetica che nel lavoro di traduzione, definito da Giudici una «avventura, un inoltrarsi in un paese sconosciuto». Nella fattispecie dell’opera del grande poeta russo lo sforzo di Giudici è teso a restituire alla tradizione italiana l’incanto musicale dei versi puskiniani, a rendere nella nostra lingua il ritmo e la musica della tetrapodia giambica del poema, quella più assomigliante alla lingua originale e alle sue strofe di quattordici versi, la cosiddetta strofa oneginiana, resa da Giudici in novenari. Sarà Gianfranco Contini a dire che Giudici è stato «il solo traduttore che abbia comunicato qualche cosa del fremito straordinario di quell’opera apparentemente leggera e futile, ma di una futilità sublime, che è l’Oneghin. Uno, mi pare, dei capolavori dello spirito umano».

Un’opera di traduzione alla quale Giudici ha messo mani più volte con correzioni e varianti nel corso degli anni, con l’intenzione di fabbricarsi un Onegin «italiano», «anzitutto per mio uso e consumo. Come lettore, per goderne una lettura affrancata da barriere linguistiche» scriverà Giudici, la cui prima idea sopraggiunge durante il suo soggiorno in URSS quale responsabile dell’ufficio stampa in una mostra di macchine per ufficio e sistemi elettronici.

Il poema ha impegnato Puškin per oltre un decennio, dall’idea già nata nel 1821 durante il suo esilio a Odessa, fino alla sua travagliata stesura, dal primo capitolo nel 1823 fino alle successive, frammentarie e dilatate nel tempo revisioni, con tutte le  varianti, tagli e aggiunte nel frattempo occorse per effetto della censura che attanagliava l’opera e la vita stessa di Aleksandr Sergeevič, braccato e mandato al confino già per effetto delle sue liriche in odore di anti zarismo e simpatia per i decabristi. Il piano dell’opera è tracciato da Puškin nel 1830 mentre è il 1832 quando gli otto capitoli del poema vedono la luce nella loro versione in stampa definitiva (nel corso degli anni diversi capitoli erano apparsi su varie riviste, mente il nono e il decimo sono espunti dalla stessa per i motivi già citati).

Eugenio Onegin, una sorta di Giovin Signore in terra russa (il primo capitolo è per certi versi un calco più che rappresentativo della figura del protagonista dell’opera di Giuseppe Parini, e ironia della sorte Puškin nasce nello stesso anno in cui Giuseppe Parini muore), è un nobile, un po’ dandy romantico, un po’ rivoluzionario, con simpatie per i circoli liberali come traspare dalla non celata (anche se in gran parte censurata insofferenza verso il potere degli Zar), esperto in quella “scienza della tenera passione” mutuata dal citato poema di Ovidio dell’Ars Amandi. Allo stesso tempo è l’espressione di quella gioventù europea che colpita dal crollo dell’esaltazione napoleonica è afflitta dalla “chandra” (nel piano primitivo dell’opera questo doveva essere il titolo del primo capitolo), in qualche modo l’equivalente dell’inglese spleen, malinconia che non può essere confinata nelle motivazioni storiche ma in più profonde radici individuali ed esistenziali, che nella forma più intensa diviene vera e propria angoscia, e che in Onegin all’inizio del poema si manifesta dietro la maschera del disincanto, del cinismo e della nausea della vita mondana.

La profondità psicologica e la grandezza dei due protagonisti, perché insieme a Eugenio svetta la figura di Tatiana Larina, l’eroina del romanzo in versi puskiniano, è molto più ampia e va oltre la contingenza storica e la loro frammentaria e irrisolta storia d’amore. Su Tatiana, la ragazza di provincia, la più fulgida espressione dell’anima russa, così lontana da quel mondo brillante e falso nel quale vive Onegin, si pronuncerà anche Dostoevskij sottolineandone la fermezza e il nobile istinto del sapere dove e in che cosa stia la verità, arrivando a dire che il titolo del poema dovrebbe essere stato Tatiana. La sua natura semplice, poetica e profonda è quella che dona tutto un senso all’opera. Per lei l’amore poteva essere un grandissimo bene o una grandissima angoscia, senza nessuna via di mezzo. La lettera di Tatiana a Onegin rimane una delle più alte testimonianze del romanticismo:

Pensai: sono qui sola,

E nessuno che mi comprende,

E già vacilla la mia mente.

Perirò senza una parola.

Ti aspetto: rianima d’un solo

Sguardo nel cuore la speranza

O, ahimè, con giusta rimostranza

Spezza questo mio brutto sogno

L’animo appassionato di Tatiana e il suo fascino è incastonato nello spirito russo e nella verità poetica dei romanzi citati nel poema. Tatiana è una costruzione letteraria, forgiata non dalla natura ma dai romanzi letti, sui quali Puškin svolge un’ampia carrellata; si è formata sulla scia delle eroine di quei romanzi alle quali paragona se stessa: Clarissa Harlowe, fanciulla perseguitata dalla sorte del romanzo Clarissa di Samuel Richardson, la Delfina dell’omonimo romanzo di Madame De Staël, la Nouvelle Heloise di Rousseau, solo per citarne alcune, perché l’Onegin è anche un grande viaggio all’interno della letteratura, letteratura che con costanti rifermenti e rimandi a opere coeve all’epoca dell’autore e a classici del passato si respira ovunque, in una trama altrimenti esile e quasi banale: la storia di Eugenio Onegin, un dandy annoiato che eredita la ricchezza di uno zio scomparso, il suo trasferimento in campagna dove incontra il poeta Lenskij che lo introduce alla famiglia dei Larin, la cui figlia maggiore si innamora di lui che la respinge, Eugenio il quale per fare un dispetto a Lenskij fa la corte alla di lei sorella Olga, promessa sposa del poeta. Nel duello innescato per vendicare l’oltraggio Lenskij muore, Onegin tornerà a Mosca dove ritroverà Tatiana trasformata in una donna dell’alta società della quale Onegin ora si innamora, questa volta subendo dalla stessa il respingimento amoroso da lui precedentemente inflittole, infatti Tatiana pur dichiarandogli ancora il suo amore decide di restare fedele al marito. La delusione d’amore ha maturato Tatiana, la quale comprende l’inutilità del proprio destino (al quale rimane fedele) e accetta come quasi tutte le altre donne del suo ceto sociale quello che hanno scelto per lei i suoi genitori.

Un vero romanzo, e non solo una sublime opera poetica, perché l’Onegin ha un suo intreccio e una fabula seppure contrappuntata da continue digressioni, tacciata per questo di frammentarismo (dovuto anche alla dilatazione nel tempo della sua composizione), caratteristica tipica della poetica romantica, un uso della giustapposizione che in fondo è quello di un altro immortale della letteratura di tutti i tempi, nientemeno che il Bardo, e quindi si possono trovare intere strofe che sono una riflessione sulla letteratura preromantica e neoclassica, quella dell’idillio sentimentale del canone settecentesco, esemplificata nella figura di Lenskij, a confronto con quella ottocentesca, con incursioni in complesse polemiche letterarie tra il classicismo e il romanticismo, negli usi e stili di vita russi incluso il suo folklore, nella storia russa con sempre circospetti e solo allusivi richiami allo sfondo sociale dell’epoca (il movimento dei decabristi), fino a dotte disquisizioni sul vino.

Un’opera nella quale c’è molto del suo autore tanto che sembra che le figure di Onegin e Puškin siano in alcuni casi sovrapponibili. A partire dal percorso di Onegin verso la campagna russa che riflette in parte lo stesso di Alexandr Sergeevič costretto all’esilio prima in Bessarabia, poi a Odessa, poi a Michajlovskoe, tutti luoghi che hanno interessato la stesura del poema. Puškin che nasce da una nobile famiglia baltica (la madre è discendente del Moro di Pietro il Grande) nel 1799 nella sempre amata Mosca, alla quale nell’Onegin sono dedicate, nel settimo capitolo, ove si narra il ritorno di Eugenio nella “seconda capitale”, alcune delle più belle strofe dell’intero poema:

Ma ecco ormai davanti a loro

E Mosca, di pietre bianca;

Un fulgore di croci d’oro

Sulle antiche cupole avvampa

Puškin che all’inizio della sua educazione letteraria e sentimentale si troverà a Pietroburgo dove frequenterà poeti e letterati oltre a entrare in contatto con i circoli (non solo letterari) che stavano costituendo gruppi di impegno politico pre-decabrista verso i quali nel poema traspare la simpatia di Onegin. Aleksandr Sergeevič convolato a nozze con la bellissima Natalja Goncarova (pare questa fosse nelle grazie dello Zar), il cui incontro si rivelerà seppur indirettamente fatale per il nostro, infatti a seguito del presunto innamoramento di lei da parte del figlio adottivo del ministro d’Olanda, il Barone van Heeckeren, questo sfiderà a duello il poeta che ne uscirà ferito a morte in un pomeriggio del 1937 alla periferia di Pietroburgo, quasi una hybris letteraria dal poema, nel quale Onegin uccide il poeta Lenskij; Puškin che nella sua breve esistenza sarà anche storiografo di corte e ciambellano, in un tentativo di cooptazione da parte dello Zar Nicola, il quale nell’auspicio di addomesticarne la voce gli concederà di lasciare l’esilio per risiedere a Mosca o Pietroburgo. Puškin la cui statura letteraria è paragonabile a quella che per la nostra letteratura ha avuto l’Alighieri, il poeta per il quale la Russia ha una sorta di religiosa venerazione, un “santo” tutto “terreno” come sottolinea Giudici nella nota finale al volume Scalpendi, la cui purezza cristallina della poesia e l’onestà delle sensazioni trova la massima espressione nell’Onegin e all’interno di questo ancor più nelle due lettere ivi contenute: quella di Tatiana a Eugenio e quella nel finale di Eugenio a Tatiana; due gemme di inestimabile valore della letteratura universale. Il merito della riproposizione di un simile capolavoro da parte della casa editrice milanese è lì a ricordarcelo e le tre parole di Giovanni Giudici: passione, eleganza e ironia, sono le migliori per sintetizzare l’opera poetica di un autore immortale.

Edizione esaminata e brevi note

Eugenio Onieghin è un romanzo scritto in versi da Puskin tra il 1822 e il 1831. Questa edizione propone il romanzo nella storica traduzione di un grande poeta come Giovanni Giudici per continuare a seguire il solco tracciato dai primi due volumi della collana “Per l’Alto Mare Aperto” diretta da Edoardo Esposito.

Aleksandr Puškin (1799-1837), di nobilissima famiglia, è considerato uno dei padri della letteratura russa e di una lingua rinnovata dall’innesto della parlata comune. Dapprima partecipe della vita mondana di San Pietroburgo, e più volte costretto all’esilio per la libertà di alcuni suoi scritti, fu autore acclamato sia di liriche e di poemi (Ruslan e Ljudmila, 1820; Il cavaliere di bronzo, 1833) sia di prose come La dama di picche (1834) e La figlia del capitano (1836). Scrisse per il teatro il Boris Godunov (1831, poi musicato da Musorgskij); la stesura completa del poema Evgenij Onegin fu pubblicata nel 1833. Morì in duello pochi anni dopo, nel 1837.

Giovanni Giudici (1924-2011), nato a Le Grazie (SP), è vissuto a Roma, Ivrea, Torino, Milano, esercitando la professione di giornalista e di copywriter. Dopo le prime plaquettes e dopo il volume La vita in versi (1965) si è affermato come uno dei più vivi poeti del secondo Novecento con i volumi di Autobiologia (1969), O beatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981), Lume dei tuoi misteri (1984), Salutz (1986), Fortezza (1990), Quanto spera di campare Giovanni (1993), Empie stelle (1996), Eresia della sera (1999).