Amal Djaïli Amadou

Le impazienti

Pubblicato il: 26 Agosto 2021

Munyal” è una parola fulani che significa pazienza. La pazienza che ogni donna fulani che va in sposa deve imporre a se stessa per sopportare, accettare, rassegnarsi, sottomettersi e tacere. La pazienza come obbligo e unica regola di vita. Così è sempre stato e così sarà. La stessa Djaïli Amadou Amal, scrittrice camerunense di discendenza fulani, è stata obbligata a sposare, a soli 17 anni, un uomo di 50. Fuggirà dal primo marito e anche da un secondo. “Le impazienti” è il suo terzo libro, il primo pubblicato in Italia. È il racconto del destino di tre donne ma, simbolicamente, di milioni di altre donne. Storie di matrimoni imposti e di una cultura e di una religione che non ammettono varianti né sbavature.

La poligamia è del tutto normale così come è normale che una ragazzina possa essere data in sposa a chiunque si dimostri capace di mantenerla e sia gradito all’uomo di famiglia. Nessuna donna ha voce in capitolo, soprattutto quando è ancora adolescente. Tra le pagine de “Le impazienti” troviamo le storie di Ramla, Hindou e Safira. È dei loro matrimoni forzati che Djaïli Amadou Amal scrive. Ogni storia ha la sua voce. La prima è quella di Ramla obbligata a sposare, proprio come l’autrice, un cinquantenne. Ramla ha 17 anni e vorrebbe studiare per diventare farmacista ma deve lasciare dopo il diploma che, per una ragazza, è considerato fin troppo. Lo zio di Ramla informa suo padre che un importante e ricco commerciante la vuole sposare. “Io non ero solo figlia di mio padre, ero figlia di tutta la famiglia, e ognuno degli zii poteva disporre di me come dei propri figli. Era semplicemente impensabile che io potessi non essere d’accordo“.

Il matrimonio di Ramla si celebra insieme a quello della sorella Hindou. A lei è destinato un marito più giovane, un cugino: Moubarak ha 22 anni ma, come tutti sanno, è un nullafacente che si droga, frequenta pessime compagnie ed è anche molto violento. Inutili le lacrime e le suppliche della ragazza, Hindou è comunque costretta ad andare in moglie a un giovane che difficilmente altrove avrebbe trovato una sposa. Tutti sanno che per lei è previsto un futuro di sopraffazioni e di violenze ma la cultura del “munyal” non ammette deroghe. Prova a fuggire ma viene ricondotta da suo marito che continuerà a picchiarla, violentarla e a mortificarla come meglio crede.

Safira, invece, è già moglie. La prima moglie dell’uomo che Ramla ha dovuto sposare. La prima moglie, daada-saaré, gode di privilegi che le mogli successive non potranno mai avere. Il racconto di Safira ci introduce nel clima di astio e di gelosia feroci che una moglie più giovane e bellissima come Ramla è costretta a subire. Safira a 35 anni non tollera che l’uomo che ha sposato venti anni prima possa condurre in casa una seconda sposa di soli 17 anni. L’odio la logora e la spinge e consultare continuamente i marabutti, gli stregoni, per celebrare riti ai danni di Ramla: vuole che se ne vada, vuole che sparisca, vuole che muoia.

Pazienza, munyal, bambina mia, stai entrando in un mondo fatto di dolore. Sei così giovane, così impaziente, ma sei una ragazza, quindi ricordati, munyal, per tutta la vita. E comincia subito, perché il tempo della felicità è breve per una donna. Pazienza, figlia mia, già fin d’ora“. Un mondo di dolore, dunque. È questo, necessariamente, il matrimonio per una donna fulani. Il sistema rigidamente patriarcale e maschilista che vige tuttora in alcuni Paesi si basa sul totale controllo dell’esistenza di una donna: a nessuna è permesso compiere scelte individuali e libere. La cultura tradizionale si rafforza anche attraverso un’interpretazione letterale e arcaica del Corano che permette a ogni uomo di disporre delle “sue” donne come fossero oggetti di sua proprietà.

La legge islamica così definita, tra le altre cose, richiede alle donne di essere sottomesse al proprio marito, di essere modeste, riconoscenti, discrete e, ancora una volta, pazienti. Lo squilibrio tra il ruolo dell’uomo e quello della donna, in tali contesti, è abissale. Leggere “Le impazienti” proprio nei giorni in cui i fondamentalisti islamici hanno riconquistato il potere in Afghanistan è stato particolarmente inquietante. L’immedesimazione con le tre protagoniste è inevitabile, così come il senso di frustrazione e di impotenza. Certi principi sono così radicati in alcune società che sono solitamente le stesse madri, vittime a loro volta di regole disumane, a inculcare alle proprie figlie concetti come quello del munyal. Essere costrette alla pazienza significa, ovunque, la stessa cosa: retrocedere remissivamente, rinunciare a sé e ai propri desideri, arrendersi a un destino indesiderato, rassegnarsi tacitamente alle sopraffazioni come se ogni atto di umiliazione o di violenza subito fosse la normale conseguenza di una colpa che, in realtà, non si ha. Cosa ci insegna Djaïli Amadou Amal? A non avere alcuna pazienza, non in queste condizioni.

Edizione esaminata e brevi note

Djaïli Amadou Amal 45 anni, di madre egiziana e padre fulani, è originaria del Camerun. Data in sposa a diciassette anni a un cinquantenne di buona famiglia, riesce a liberarsi del primo e poi anche del secondo marito, fuggendo a Yaoundé. Qui comincia una nuova vita lavorando, scrivendo e fondando un’associazione per l’istruzione femminile (Femmes du Sahel): diventa la «voce dei senza voce». Nel 2010 il suo “Walaande, l’art de partager un mari” le attira l’attenzione del pubblico e delle istituzioni. “Le impazienti”, il suo terzo libro, esce in Camerun nel 2017 e nel 2019 riceve il Prix Orange du Livre en Afrique. L’edizione francese, per Emmanuelle Collas, è stata finalista al premio Goncourt e si è aggiudicata il Goncourt des Lycéens nel 2020.

Djaïli Amadou Amal, “Le impazienti“, Solferino, Milano, 2021. Traduzione di Giovanni Zucca. Titolo originale: “Les impatientes” (2020).

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