Ponthus Joseph

Alla linea

Pubblicato il: 19 Dicembre 2022

 

‘Ai proletari di tutti i paesi / Agli illetterati e agli sdentati / con i quali ho tanto imparato riso sofferto e lavorato’ (J.Ponthus)

‘La fabbrica mi ha calmato come un lettino
Se dovevo impazzire
Impazzivo i primi giorni ai gamberetti ai bastoncini di pesce al mattatoio
Impazzivo la notte del tofu
La fine della fabbrica sarà come la fine dell’analisi
Sarà semplice e chiara come una verità
La mia verità’ (J.Ponthus)

‘ …il fine di tutto il nostro esplorare/ sarà di giungere al punto da cui siamo partiti/ e di conoscere il luogo per la prima volta…’ (T.S.Eliot)

Cento giorni
Cento ore
O forse cento minuti mi darai
Una vita, cento vite
La mia vita in cambio avrai
(CATERINA CASELLI)

Non sei mai stato in fabbrica se non sei la fabbrica, se non hai la fabbrica nella testa, se non ne sei che un cardine risibile, sulla chiusura dei giorni. Ponthus scrive che la fabbrica è soprattutto un rapporto col tempo che passa, ma che, proprio per questo, non passa. Vuole semplicemente dirci di NON parlare MAI come un operaio se non hai mai fatto un giorno alla LINEA; se non hai mai osservato, in catatonico ottundimento, il fiume d’argento di una catena di montaggio su cui scorrono crostacei, molluschi di un mare fruttuoso e lontano; se mai sei restato inchiodato nei gangli di un ricordo di giornate estive, mentre a pochi passi da te, abbattono fumanti in narici, le vite riposate, su fredde ceramiche, di quarti di prelibata morte per le nostre tavole. Al mattatoio, scrive Ponthus, allucinati scompariamo, sotto la produzione di morti animali, un ammasso di frattaglie carne sangue ed igiene, da ripristinare nei giorni dell’audit, nelle mattine al neon fredde di luce.
Questo romanzo lirico è il resoconto inconvertibile di un lavoratore interinale nella regione francese della Bretagna, dove la pelle ha sempre l’odore del vento e dell’orizzonte. Testimonia la riemersione della classe operaia la cui coscienza di classe però, si è dispersa a causa del moltiplicarsi di tipologie di contratti, dai diversi orari e mansioni, in un quadro di deregulation diffuso. Nelle fabbriche in cui l’autore viene indirizzato, gli interinali sono gli invisibili figli della forza lavoro, senza la possibilità di rifiutare un impiego, di partecipare ad uno sciopero, di declinare l’offerta di svolgere straordinari, pena il non venire più richiamati al lavoro. À la ligne ci investe con il tremendo anelito di quell’“esercito industriale di riserva”, di cui il sistema capitalistico ricorre periodicamente per rigenerare sé stesso e massimizzare i propri profitti.
Questo testo potentissimo sprezza i tempi dell’agio, di chi in fabbrica non ha mai lavorato, e balbetta fra le parole convitate ai tavoli del sabato sera; mentre i giorni del protagonista sono segnati da ritmi incessanti di veglia/sonno, di posti assegnati telefonicamente la sera prima, in uno stabilimento nuovo in cui collaudare i propri sogni inghiottiti. E così le giornate trascorrono, tra risvegli e rientri; tra pause caffè, muti sorrisi di solidarietà tra colleghi e canzoni di Trenet canticchiate ed infreddolite.
Ma cosa salva il protagonista da questo abbruttimento del secolo a chiamata?: la Poesia mandata a memoria, archeovita umanistica, lo stupor corporis del qui ed ora; la propria compagna e il suo amore che lo strascina con dolcezza, che lo aspetta nel sonno come da una stagione migliore; il proprio cagnolino, che scodinzola sempre, prima delle loro uscite nei grandi cieli blu d’inverno. Il sapere chiedere scusa delle parole; perché le parole dell’amore e della vita sono semplici, ci ricorda Joseph. E poche. Pochissime. Quasi che non ne esistano più…
Joseph Ponthus annota su carta, sottraendo alla sopravvivenza, queste lettere dalla fabbrica; lui piccolo interinale dimagrito-anarchico che, tra i fratelli neri e bianchi, deve solo spingere e tirare; lui, schiena nervi e polsi. Spingere carcasse senza fine per guadagnarsi da vivere, no guadagnare soldi, perché la vita non si guadagna così ma la si perde; vendo la mia forza lavoro; tutto qui.
E tutto scorre: la stanchezza che mai sarà politica, i sogni smaltiti nelle ore prime del mattino, la sofferenza del corpo-operaio, l’azzeramento delle parole, lo sfinimento nei gesti ripetuti, la ripetizione del dolore che fa cristallo di tempo la vanità dell’impresa, di ogni impresa.

‘…il nostro fisico è consumato, amico mio collega.
e il pranzo è cosi lontano
speriamo di vedere un’ombra che si muove in lontananza nei
riflessi degli uffici che i capi hanno lasciato da un pezzo
non ci nascondiamo adesso ma ancora non abbiamo il
coraggio di fumare
solo un camion
solo un ‘ora…’


La parola allora accompagna la rassegnazione e il riserbo, e la scrittura senza punteggiature, nei versi liberi, composita solvantur, cerca di raccontare ciò che non lo merita. Oltre sta solo il silenzio del lavoro. Il silenzio del dolore. E quello del dolore MAI avuto: il silenzio di un vertigine mai nata.

Joseph Ponthus 1978-2021



Edizione esaminata e brevi note

Joseph Ponthus è nato nel 1978 e morto nel 2021. Ha studiato letteratura a Reims e lavori sociali a Nancy, ha fatto l’educatore nella periferia di Parigi per poi stabilirsi in Bretagna. Alla linea, il suo primo e unico romanzo, è stato un caso editoriale e ha riscosso grande successo di critica, aggiudicandosi cinque premi letterari.

Joseph Ponthus, Alla linea, traduzione di Ileana Zagaglia, Bompiani, 2021