Heim Scott

Mysterious Skin

Pubblicato il: 3 Marzo 2009

“Chiusi gli occhi e vidi me stesso a otto anni. Un altro ragazzino mi teneva per mano, guidandomi. Entrambi indossavamo le uniformi delle Pantere. Era assurdo, in un certo senso riuscivo quasi a sentire il palmo umido della mano del ragazzino, potevo sentire l’odore dell’erba appena tagliata, il tuono che rimbombava nel temporale intorno a noi. Il bambino mi portò verso una porta aperta e ci trovammo immersi in una luce blu diffusa. Era l’interno della navicella aliena? Non potevo dirlo, ma quando ci muovemmo verso la luce, vidi che c’era qualcun altro, qualcuno più alto di noi. Quell’uomo aveva un potere assoluto su di noi, come se fosse un re. Alzai lo sguardo verso quella figura alta e lì il sogno ad occhi aperti si interruppe. Non importa quanto disperatamente cercassi di farlo continuare, non si materializzò più nulla sullo schermo della mia memoria.” (p. 137).

Quando vidi per la prima volta Mysterious Skin di Gregg Araki, film del 2004 presentato al Festival di Venezia e passato di sfuggita nelle sale italiane, pensai che fosse una delle storie più toccanti e sconvolgenti che fossero mai apparse sul grande schermo. Non mi sorpresi più di tanto della pessima distribuzione italiana, dal momento che, pur essendo un film coprodotto anche dagli Stati Uniti, è lontano, per budget, estetica e tematiche dai classici lungometraggi hollywoodiani. Scoprii subito che era tratto da un libro di un giovane letterato americano, datato 1995, purtroppo non ancora tradotto in Italia, nonostante i riconoscimenti avuti in madrepatria. Circa due anni più tardi il libro arrivò anche nel Belpaese, grazie alle edizioni Playground, nella collana Liberi e Audaci. Nel 2007 il testo fu finalmente nelle mie mani, ma attesi qualche mese prima di immergermi nella desiderata lettura. Attesi per un semplice, rilevantissimo motivo: per leggere Mysterious Skin ci vuole la giusta disposizione, il giusto spirito, la voglia di confrontarsi con una vicenda che – seppiatelo in anticipo – non potrà, alla sua conclusione, lasciarvi nel medesimo stato d’animo con cui avete cominciato la lettura. Non potrà non scuotervi nell’intimo, nel profondo. E ciò l’avevo intuito già dal film, da approcciare anch’esso con tutta la cura del caso. Ma se l’opera d’Araki – pur fedele nello spirito e nel ricalcare gli snodi narrativi essenziali del testo – ci destabilizza facendo sue con inconsueta grazia le devastanti suggestioni contenute nel libro, il romanzo di Heim è davvero un viaggio frastornante e lacerante anche per il più smaliziato dei lettori, una poetica parabola sull’infanzia-adolescenza, sul disagio, sulla diversità, sulla complessità della natura umana, sui suoi lati più bui e imperscrutabili, sull’orrore e il nonsenso della società in cui viviamo, sull’istinto e sull’amore. Sui bambini: sulla loro purezza inviolabile, ma anche sulle loro pulsioni intime, sessuali.

Siamo nel 1981, nel Kansas. La storia parte da qui, e intreccia le vicende di due bambini che vivono rispettivamente a Little River e ad Hutchinson, due piccole cittadine di provincia a non più di un’ora di distanza l’una dall’altra. Brian e Neil hanno otto anni e giocano nella stessa squadra di Baseball, le Pantere, iscritta alla Little League nell’estate che segnerà per sempre le loro vite. Oltre a questo non hanno niente in comune: Brian è un ragazzino timido, introverso, il peggiore della squadra, iscritto forzosamente da un padre super appassionato di baseball e di softball, noncurante del totale disinteresse per lo sport del bambino. Neil è invece il campioncino locale, orgoglio del suo allenatore. I due non sono amici, praticamente non si conoscono, pur giocando assieme, e probabilmente non arriverebbero a conoscersi mai se non ci fosse una terza figura che legherà indissolubilmente i loro destini. Brian e Neil ci raccontano la loro storia separatamente, partendo proprio dall’estate del 1981 fino al Natale del 1991, momento nel quale la vicenda di Mysterious Skin si conclude. Brian ci parla subito dell’evento che segna la sua infanzia. Ci racconta di quel che ricorda, o sarebbe meglio dire quel non ricorda, ciò che la sua memoria sembra avere irrimediabilmente smarrito. Cinque ore della sua vita, un lasso temporale che va dalla fine di una partita di baseball, seduto su una panchina, fino al risveglio improvviso, intorno a mezzanotte, nel seminterrato di casa sua. Seduto con le gambe contro il petto, le braccia intorno alle gambe e la testa piegata in mezzo alle ginocchia. Con escoriazioni sotto i polsi e col naso pieno di sangue coagulato, a complicarne la respirazione. Cosa è accaduto? Il vuoto di quelle cinque, maledette ore sarà un macigno sull’adolescenza di Brian, che acuirà il suo disagio relazionale e che gli insinuerà il dubbio d’esser stato vittima di un possibile rapimento alieno, supportato nelle sue tesi dalle infinite letture sull’argomento e dall’avvistamento di un oggetto volante non facilmente identificabile – confortato dalla presenza all’evento della madre e della sorella -, passato a distanza visibile da casa sua. Quello che ci racconta di sé Neil, invece, è già da subito molto più inquietante. L’estate è sempre la stessa, quella in cui il bambino è un piccolo eroe sportivo locale, la stessa in cui comincia precocemente a scoprire le sue prime pulsioni sessuali, “favorito” da una madre spesso sorpresa a scopare col nuovo fidanzato di turno, per essere poi costantemente lasciata. Ciò che scopre Neil, comunque, è una diversa sessualità: è attratto dal suo stesso sesso; non solo, è attratto da uomini baffuti, irsuti e nerboruti, sul modello dell’allenatore. Ovviamente, a quell’età è un istinto non cristallino, un’idea confusa e comunque non sublimabile nell’interazione. Ma in men che non si dica il destino pone Neil di fronte a colui che lo inizierà precocemente alla sessualità: l’allenatore della squadra di baseball, segretamente pedofilo e abilissimo nel conquistarsi le simpatie dei bambini. Neil porterà sempre con sé i ricordi di quell’estate, ma non in maniera traumatica come consuetudine vorrebbe, al contrario idealizzando quell’ amore precoce e diverso da cui era stato violentemente investito. Non ancora adolescente, sarà uno dei pochissimi gay conclamati di Hutchinson e dintorni, fino a diventare una “marchetta” all’età di 15 anni.

Le vite di Brian e Neil non si incontrano, scorrono distinte e distanti, fino al 1991. L’adolescenza di Brian è trascorsa solitaria, confortata dalla vicinanza della madre (il padre era andato via di casa, la sorella aveva lasciato il Kansas per cercare la sua strada) e attraversata dagli incubi, sempre più nitidi, sul rapimento subito ad opera degli alieni. Neil invece è un ragazzo anticonformista in una realtà che più conformista non potrebbe essere, che si prostituisce per soldi e per piacere, per nulla turbato dalla sua diversa sessualità. Trascorre le giornate in compagnia di Eric, coetaneo e egualmente omosessuale, da quando la cara amica Wendy, di lui segretamente innamorata, si è trasferita a New York. Neil è un ragazzo bellissimo, che non passa inosservato, affatto interessato però ai coetanei. Lo stesso Eric ne è innamorato, quasi destabilizzato dal vibrante sentimento, anch’esso celato. Brian intreccia una imprevista amicizia con una donna, convinta d’esser stata ripetutamente rapita dagli alieni, e per questo finita a raccontare la sua storia in televisione. Avalyn è una trentenne già ingrigita dalla vita, sopraffatta dai suoi fantasmi e da un’adolescenza senza luci, avvolta nelle nebulose di vuoti temporali che cerca di riportare alla coscienza attraverso costose sedute d’ipnosi. Avalyn, pur indirettamente, aiuterà Brian a far riemergere alla memoria importanti tracce del tempo cancellato. I sogni ad occhi aperti si fanno sempre più nitidi, fino a lasciare trasparire un volto umano definito e riconoscibile, ed uno alieno sfocato e sfuggente. Nel suo mondo onirico vive un bambino a lui coetaneo, che lo accompagna per mano verso l’orrore che non riesce a focalizzare. E più passa il tempo, più i ricordi vanno a fuoco, più l’alieno si fa umano, terribilmente umano. Ecco il legame che cercavamo al principio, ciò che accomuna Brian e Neil, in una notte d’estate di dieci anni prima. Brian va allora in cerca di quel bambino oramai cresciuto, che ha scoperto chiamarsi Neil McCormick, vuole capire, sapere cosa è realmente accaduto in quelle famose cinque ore. Ma Neil è da poco partito per New York, per allontanarsi definitivamente dal Kansas; in compenso Brian trova in Eric un nuovo amico, il primo vero amico della sua vita. È l’estate del 1991, e Neil tornerà ad Hutchinson solo per Natale. Brian attende impaziente quella data, mentre le nebbie della coscienza progressivamente si diradano, in attesa di una verità affatto extraterreste, di un confronto che più che la sostanza dell’accaduto gli nasconde “soltanto” gli inquietanti particolari.

L’epilogo di Mysterious Skin, e lo si può capire anche dall’intenso film di Araki, è quanto di più toccante, struggente e poetico la letteratura contemporanea può metterci di fronte agli occhi. Il particolare e tenero abbraccio tra Neil e Brian, filmato da Araki sulle splendide note dei Sigur Ros, è il giusto sigillo, pur non totalmente identico, alle liriche e malinconiche ultime pagine del testo di Heim. Il finale di Mysterious Skin ti entra dentro e mette radici, non ti abbandona per ore, giorni, dopo averlo interiorizzato attraverso la lettura. Resta violentemente nei ricordi, fino a depositarsi nell’inconscio, come a me è capitato. Più in generale questo è un libro, non esagero, senza pari nella letteratura degli ultimi 20-30 anni, perché capace di scuotere la coscienza affrontando gli universali dell’esistenza attraverso lo specchio deformato in cui si riflette la sessualità infantile, fino a toccare un tema scomodo, rischioso, indicibile, odioso, crudele e insensato come la pedofilia. E questo è il primo grandissimo pregio di Heim, far ruotare la narrazione su questa ingombrante tematica, esplicitamente, senza peraltro formulare giudizi aprioristici o moralistici – e leggendo vi accorgerete che è la scelta giusta: non abbiate paura o pregiudizi –, nemmeno sulla disturbante figura dell’allenatore che amava i bambini. La prosa di Heim alterna lirismo a crudo realismo, in alcuni frangenti li mescola in un impasto di rara potenza espressiva, di sconvolgente capacità descrittiva, fino a indugiare nell’intimo dei fanciulli a contatto con l’orco di una fiaba che più nera non potrebbe essere. Ma non c’è nulla di morboso nelle sue impietose descrizioni, ogni parola è soppesata, dosata e incastrata in un contesto in cui non sembrano esistere sogni, ma solo infiniti incubi:

“Sapevo cosa stava per accadere, una parte di me capiva che non era giusto. L’altra voleva che succedesse. L’allenatore mi abbracciò, le sue dita mi toccavano e accarezzavano, tracciando e rintracciando le linee e gli angoli delle mie spalle, della mia schiena e del mio sedere. ‘Shhh’ disse. ‘Angelo’. Il suo naso toccò il mio e il suo respiro si spostò nella mia bocca. ‘Non c’è niente di male nel baciare una persona in questo modo. Niente. Non credere che c’è qualcosa di male’ ” (p.36).  

Heim ci parla dell’altra America, della provincia senza sogni, aspirazioni, speranze, geograficamente condannata all’oblio. Tutti ne vogliono fuggire, pochi ci riescono veramente. Ma Mysterious Skin è anche, soprattutto un apologo sulla diversità, sessuale e non solo. Neil è orgogliosamente omosessuale, e Heim lascia filtrare dalle sue pagine una critica sociale, culturale e politica contro un’America rozza, ignorante, incapace di confrontarsi con l’omosessualità, sempre schernita, avversata, vilipesa, ridicolizzata, confinata in locali ai margini delle periferie urbane, soprattutto a certe latitudini. Ma anche Brian è a suo modo un diverso, ancora meno integrato di Neil, per la sua difficoltà a socializzare legata al trauma infantile. È un’America che non solo non ama, ma addirittura esclude i suoi figli diversi dalla sua grande “comunità democratica”.

Il libro è suddiviso in tre parti, legate a tre diversi periodi temporali contrassegnati da tre colori: blu, grigio, bianco. Questa consequenzialità cromatica ha un senso, legato alla pelle misteriosa evocata dal titolo. Un titolo essenziale e bellissimo, una volta svelato l’enigma che porta con sé. Quando vidi il film di Araki, ero assolutamente sicuro che la pelle misteriosa fosse quella (inviolabile) dei bambini; leggendo il romanzo di Heim mi sono accorto che il mistero della pelle è esteso oltre l’infanzia, ed è il reale simbolo dell’intera vicenda, che riguarda tutti i personaggi sulla ribalta. La pelle misteriosa è tale soprattutto nel sogno, nell’incubo; quanto più è nebuloso tanto più i suoi tratti, i suoi colori, la sua essenza restano indefiniti. I tre colori della progressione narrativa rappresentano l’avvicinamento alla luce, partendo dall’oscurità del blu, passando per l’incertezza del grigio, fino a terminare nel bianco. Nella limpidezza, nella purezza. Anche l’orrore sfuma nella consapevolezza di averlo vissuto.

Gli elementi psicanalitici presenti nel testo, dalla rimozione dell’evento traumatico alla riappropriazione del passato attraverso la presa di coscienza, alla crescita e al confronto con l’alterità e con i sentimenti sono ben dosati da Heim che trova un’invidiabile compattezza narrativa pur toccando temi che affermare siano di una delicatezza estrema sembra quasi riduttivo. Potrei campionare molti passi del testo che vi lascerebbero senza parole fino a inorridirvi, fino a farvi provare disgusto, fino a farvi odiare Scott Heim per aver turbato il vostro mondo ideale e la vostra morale. Perché è indescrivibile l’intimo di un bambino che fa sesso con un adulto, perché ciò può essere ingiusto, inconcepibile, sensazionalistico e terribile. Ci vogliono i giusti occhi, nessun pregiudizio e tanto amore e disposizione a voler capire il nostro mondo controverso, a volte talmente inaccettabile che sembra più giusto non sapere, non guardare, non capire. Be’ Mysterious Skin è una storia per chi vuol capire, chi non vuol bendarsi, chi vuol confrontarsi con il diverso, anche il più lontano da noi, il più orribile e incomprensibile. Una storia che non cerca risposte ma in cui sono fondamentali le domande. È una storia d’amore, sì, d’amore per le vite al margine, dimenticate da tutto e tutti. È una storia più consueta di quel che possiamo immaginare, è solo che la pedofilia non si racconta, non si pronuncia nemmeno, al pari della morte, che le pulsioni erotiche di un bambino sono antinarrative per i benpensanti, un peccato mortale, un’offesa al comune sentire, alla “morale democratica condivisa”. Dimenticando, forse, che siamo stati bambini anche noi.

Brian chiuse gli occhi, il sangue strisciava lungo la sua guancia imbrattandogli i capelli. Lo sentii, umido e tiepido, filtrare attraverso i pantaloni. Era il sangue di Brian e per qualche ragione sapevo che era puro. Nessun altro degli uomini che avevo tenuto tra le mie braccia aveva un sangue così puro. I suoi occhi si riaprirono e guardò in su verso di me. ‘Raccontami, Neil’ disse ‘Raccontami ancora’ ”. (pp.266-267).     

Curiosità: Scott Heim deve essere sicuramente un appassionato di cinema horror, perché cita un’intera, terrificante sequenza di Suspiria (una delle più truci e ispirate in assoluto filmate da Dario Argento), ed una emblematica de L’esorcista di William Friedkin. Il nome della donna che crede d’essere stata ripetutamente rapita dagli alieni è, probabilmente, un omaggio di Heim agli Slowdive, una delle band simbolo della corrente musicale britannica shoegazer, che ha intitolato uno dei suoi pezzi più suggestivi proprio Avalyn. Gli Slowdive sono entrati non a caso anche nella colonna sonora del film di Gregg Araki.

Federico Magi, marzo 2009.

Edizione esaminata e brevi note

Scott Heim è nato ad Hutchinson, Kansas, nel 1966. Ha esordito nel 1996 con Mysterious Skin, un romanzo di culto ristampato in decine di edizioni e trasposto al cinema da Gregg Araki nel 2004. Nel 1997 è uscito In Awe, inedito in Italia, e per dieci anni Heim ha lavorato a Le sparzioni, uscito negli U.S.A. nel febbraio del 2008 e arrivato anche in Italia qualche mese dopo nelle edizioni Neri Pozza.
Scott Heim, Mysterious Skin, 1995. Edizione italiana: Playground, Roma, collana Liberi e Audaci, 2006. Traduzione di Carlotta Scarlatta.