Il cinema politico degli anni Settanta, che vide tra i suoi protagonisti registi come Petri, Rosi, Damiani, Maselli e in parte anche Ferreri (senza dimenticare il Nanni Loy di Detenuto in attesa di giudizio, interpretato da uno straordinario Alberto Sordi), durò in sostanza dal 1969 al 1976, e si chiuse con una pellicola molto esplicita come Todo Modo. Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, di due anni precedente, il film di Petri tenta di mettere alla berlina i poteri ritenuti corrotti dello Stato – la politica di governo, l’imprenditoria, il giornalismo connivente ma anche la Chiesa cattolica, vera regista delle operazioni – attraverso una storia morale e grottesca dai risvolti agghiaccianti. La pellicola, però, venne accolta molto male nelle sale e con freddezza dalla critica, sia per una struttura complessa, lenta e affatto lineare, sia perché, in epoca di compromesso storico, nemmeno i comunisti avevano interesse a calcare la mano contro i democristiani. Difatti l’opera di Petri, in maniera più manifesta rispetto al sottile libro di Sciascia, vuol essere una denuncia esplicita contro la Democrazia Cristiana e il suo leader del tempo, Aldo Moro. Politico abile e potente, fine tessitore di equilibri ritenuti complicati, non a caso fu il grande fautore del compromesso storico, e la sua fine a tutti nota dipese come risaputo anche e soprattutto da questo. Il clima storico-politico, pertanto, penalizzò oltremodo un lungometraggio già pieno di abbondanti difetti, fino a farlo precipitare nell’oblio dopo la morte del fu Presidente della Democrazia Cristiana. E inoltre, per la serie “misteri dell’Italia democristiana”, c’è da registrare che la pellicola fu ritrovata bruciata presso gli archivi di Cinecittà, in seguito al sequestro nelle sale. Ce ne è – e ce ne era – abbastanza per farne un film di culto, se però Todo Modo fosse un’opera più centrata e meno delirante, magari maggiormente aderente al romanzo o comunque non così lontana dal rigore narrativo dei due pluripremiati successi del regista romano: Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e La classe operaia va in paradiso (1971). Fatti i dovuti cenni storici, ripercorriamo brevemente la trama del film.
Mentre in Italia miete vittime una misteriosa epidemia, nel defilato ed inquietante albergo Zafer si sono riuniti i capi della politica di governo e dell’industria; più vari banchieri, giornalisti, dirigenti d’azienda e amministratori locali influenti: tutti appartenenti alle innumerevoli correnti della “balena bianca”. L’albergo, che non sembra affatto una dimora confortevole ma più che altro un eremo-prigione, è adibito ai famosi “esercizi spirituali”, una tre giorni in cui il potere ogni anno viene a purificarsi dai suoi peccati. Gli esercizi sono condotti dal severo Don Gaetano, prete corrotto e potente che tiene in scacco tutti, a quanto pare, compreso il Presidente, uomo destinato a guidare il rinnovamento interno. Il Presidente è un fedele dall’apparenza mite ma incline, a suo dire, ai peccati della carne; per ciò stesso punito da un tumore al bassoventre, a quanto sembra. Con lui ha portato anche la moglie, un’ex segretaria assetata di potere che gli scrive i discorsi e lo vorrebbe Presidente della Repubblica, e anche di più – in confessione, dice a Don Gaetano di considerarlo come Dio. L’atmosfera è pesante allo Zafer, perché gli esercizi spirituali non sono altro che un modo per arrivare ad una resa dei conti interna per fare piazza pulita e ridistribuire privilegi e potere: tutti tessono trame, fanno incontri più o meno segreti, cercano di stringere nuove alleanze ridefinendo volta per volta le strategie. L’atmosfera si surriscalda oltremodo quando Voltrano, politico in decadenza, lancia accuse un po’ a tutti sotto forma di consueta metafora, cominciando anche a dar di matto, fino a girare nudo dopo essersi fustigato col cilicio. E non è tutto, perché nel mezzo di un estenuante esercizio a piedi nudi, viene assassinato un onorevole. Chi è stato? Arriva il magistrato inquirente, e nessuno può uscire più dall’albergo, adesso prigione a tutti gli effetti. Da questo momento in poi cominciano a cadere come birilli politici, industriali e lo stesso Voltrano. L’assassino, sempre più inafferrabile, uccide e sovente denuda le sue vittime, lasciandole in posizioni equivoche, quasi a volerne stigmatizzare la laidezza morale. Ma il Presidente ha un’intuizione: il mistero si nasconde nelle parole di Sant’ Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, colui che aveva ideato gli esercizi proprio ad uso chi aveva gravi responsabilità di potere. Cosa si nasconde dietro le parole del Santo, “Todo modo para buscar la voluntad divina”?
Secondo lavoro di Petri ispirato da un romanzo di Sciascia (il primo è A ciascuno il suo, del 1967), Todo Modo è un’opera fortemente allegorica e irrinunciabilmente critica sul potere democristiano che da trent’anni governava la penisola. Rispetto al romanzo di Sciascia, come detto, Petri rende i “carnefici” ancor più palesi e riconoscibili, peccando però in misura e finendo con toni apocalittici figli di un pessimismo totale e incontrovertibile che va ad accostare quello di Marco Fereri, altro regista dedito al grottesco e all’impegno civile. Ma Petri non è Ferreri, e si vede, tanto da perdere completamente il filo della storia raccontata nella seconda parte della pellicola, caricando all’inverosimile i personaggi sulla ribalta fino a intrappolarsi nel suo stesso complesso meccanismo visivo-narrativo. In effetti, il primo tempo è ricco di premesse e l’atmosfera claustrofobica, palpabile fin dalle prime sequenze, indirizza la pellicola sui sentieri dell’inquietudine e del mistero. Todo Modo è anche un film strutturato su una trama thriller, per quanto palesemente accessoria, e le scenografie dai colori e dalle suggestioni allucinatorie, che strizzano l’occhio un po’ all’espressionismo tedesco e un po’ al giallo argentiano, restituiscono un’ansia palpabile e quel sottile fascino misterioso che avvolge soprattutto tre dei quattro protagonisti: il Presidente, il prete e Voltrano. Ma tutto si perde e diventa fumoso e sproporzionatamente grottesco quando Volonté perde in misura e amplifica la pavidità e l’inadeguatezza del suo personaggio, fin troppo evidentemente costruito sulla figura di Aldo Moro, e Mastroianni comincia a delirare in una sorta di – comunque fasulla – enfasi mistica. La Melato, invece, è palesemente fuori parte; cameo per Piccoli, impalpabile Salvatori nel ruolo del magistrato, e personaggio emblematico per un silenzioso Franco Citti. Tutti sopra le righe i quattro protagonisti, e volutamente, ma l’unico che si muove bene su questi registri recitativi è il bravo Ciccio Ingrassia, non a caso premiato – un performance di notevole impatto -, a suo agio e verosimile nei panni di un personaggio dalla lingua tagliente, a metà strada tra il tragico e il ridicolo. Non memorabile, questa volta, la colonna sonora di Morricone.
Nel tentativo, certamente – ed esageratamente – appassionato, di stigmatizzare le nefandezze e le malefatte del potere, Petri si dimostra sconclusionatamente ideologico tanto da prestare il fianco a innumerevoli critiche, non soltanto estetiche, per manifesta mancanza di sottigliezza, sia visiva che narrativa. Tutto troppo urlato ed esibito, nonostante una trama lenta come una meditazione gesuita, e scopertamente sensazionalistico, non lontano per atmosfere e tutto sommato ambientazione e taglio autoriale dall’inguardabile Salò di Pasolini, peraltro uscito nello stesso anno. Non un buon servizio al pungente romanzo di Sciascia, per intenderci, nel quale protagonista è invece un pittore che si trova per puro caso nell’albergo-dimora del male. Per fortificare all’eccesso l’enfasi grottesca di cui è pregna la pellicola, Petri si concentra soprattutto sui primi piani, filmando Volonté e Mastroianni, ma anche gran parte dei generici, in espressioni alterate, buffe, disturbanti, tragicomiche, sposando il surreale per amplificare il valore estetico della metafora proposta, spingendosi fino al metafisico e all’improbabile nell’ultima parte del film, immaginando un’apocalisse che perde di senso e di incisività proprio per le sue motivazioni criptiche e quasi impossibili da restituire a livello visivo. Ecco che la distesa di cadaveri, che il Presidente trova all’uscita dallo Zafer come unico superstite al terzo giorno, non inquieta né fa sorridere lo spettatore, il quale rimane sconcertato più dai dubbi di senso per un finale irrisolto che dalla piccola sorpresa nello scoprire chi è il vero, simbolico, assassino.
L’ansia di denuncia e la palese impostazione ideologica non aiutarono certo Petri – dichiaratamente schierato a sinistra, come del resto lo stesso Sciascia – a tradurre un’opera letteraria che ha sicuramente dei motivi affascinanti ma che è senza dubbio di difficile adattamento. I valori artistici della “trilogia sul potere” (oltre alle due opere premiate sopra citate, da ricordare anche il meno convincente ma dignitoso La proprietà non è più un furto, del 1973) sono lontani, ma Todo Modo è comunque un’importante testimonianza del clima politico dei Settanta e di quel cinema antisistema che ha avuto proprio in Petri uno dei suoi massimi rappresentanti. Del resto, pur con tutte le critiche possibili a cui si presta quest’opera, nell’inquadrare i vizi e le inquietudini di un potere che cominciava allora la sua parabola discendente e che acuiva nel privato quei segni di decadenza venuti successivamente agli “onori” delle italiche cronache, il film di Petri non va poi così lontano dalla realtà. E se Moro non fosse diventato un martire, per la sua arcinota e dolorosa parabola di morte, oggi farebbe sicuramente parte, nell’immaginario di chi ha sempre avversato il “democristianesimo”, della lunga schiera degli orribili, nell’inquietante compagnia degli Andreotti, i De Mita, gli Scalfaro, i Cossiga e chi più ne ha più ne metta. Petri morì prematuramente nel 1982, consumato a soli 53 anni da una breve ma fulminante malattia. Todo modo resta l’ultimo film politico italiano dei Settanta (dagli Ottanta, come sapete, si è dato spazio ad un cinema più ludico, nel Belpaese), mai pubblicato in dvd e – se si eccettua un passaggio su Raisat, che mi ha consentito di procurarmene una copia – praticamente sparito dalla circolazione.
Federico Magi, agosto 2009.
Edizione esaminata e brevi note
Regia: Elio Petri. Soggetto: Leonardo Sciascia. Sceneggiatura: Elio Petri, Roberto Pelosso. Direttore della fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Interpreti principali: Gian Maria Volonté, Marcello Mastroianni, Mariangela Melato, Ciccio Ingrassia, Michel Piccoli, Franco Citti, Renato Salvatori, Cesare Gelli, Tino Scotti, Adriano Amidei Migliano, Giancarlo Badessi, Marcello Di Falco, Giulio Donnini, Aldo Farina, Giuseppe Leone, Renato Malavasi, Riccardo Mangano, Piero Mazzinghi, Lino Murolo, Piero Nuti, Mario Batoli, Loris Pereira Lopez, Riccardo Satta, Luigi Uzzo, Guerrino Crivello, Nino Costa, Luigi Zerbinati. Scenografia: Dante Ferretti. Musica originale: Ennio Morricone. Produzione: Daniele Senatore per Cinevera. Origine: Italia,1976. Durata: 130 minuti.
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