Il titolo italiano del libro di Denis Lachaud, “Frédéric smarrito tra i suoni”, ha poco a che fare con il titolo originale, “J’apprends l’hébreu”: “Imparo l’ebraico”, che avrebbe potuto avvicinarsi senza sforzo ad un precedente romanzo del bravo scrittore francese, “Imparo il tedesco”, probabilmente seguendo una logica precisa voluta dell’autore. È pur vero che “Frédéric smarrito tra i suoni” è un titolo più originale, ma rimane comunque la perplessità relativa alla scelta di modificare un titolo in maniera tanto radicale. D’altro canto è innegabile che Frédéric, l’adolescente protagonista della storia, è impegnato nell’apprendimento della lingua ebraica. L’ultima di una serie di lingue che è costretto ad imparare per ambientarsi e per ritrovarsi nei Paesi in cui suo padre, bancario, porta tutta la sua famiglia quando viene trasferito per lavoro. Prima c’è stata Parigi, poi Oslo, poi Berlino ed, infine, Tel Aviv. Un circuito che ha portato Frédéric a conoscere il francese, il norvegese, il tedesco e a voler imparare anche l’ebraico, senza dimenticare la già assimilata conoscenza dell’inglese.
Frédéric però percepisce da un po’ una sorta di disagio comunicativo. “…capisco sempre meno quello che gli altri mi dicono. […] Perciò ho cominciato ad analizzare la comunicazione e ho notato questo: spesso mi fanno domande di cui non afferro il senso. […] Non ho tardato ad accorgermi che capivo ancora perfettamente le parole scritte. Allora ho comprato il dittafono, che mi permette di trasformare le parole dette in parole scritte, la penombra orale in luminosità su carta“. Leggere ciò che viene pronunciato ha per Frédéric un effetto rassicurante e chiarificatore. Può soffermarsi sulle parole, capirle, assimilarle. Ritrova così un ordine, una logica che i semplici suoni non riescono più ad avere. E per lui che si sente “fragile come l’uccellino che vacilla sul bordo del nido” il dittafono diviene uno strumento indispensabile. Paul, il padre di Frédéric, è uno svizzero. Mathilde, sua madre, è una francese. Frédéric, semplificando il concetto, li chiama Svizzera e Francia facendo perdere loro la valenza genitoriale tramutandoli in due Paesi, due territori separati. Nella famiglia di Frédéric ci sono anche Morgane, la sorella di dieci anni, e César, un fratello di nove. Con Morgane ci sono contatti limitati. César, invece, è una creatura che Frédéric considera pericolosa e malvagia. “Mio fratello è ovunque, mio fratello all’interno del quale non entro mai, mio fratello dallo sguardo impenetrabile, mio fratello che mi tiene ai margini da sempre, da quando è sbarcato dalla maternità e mi ha individuato in cima alla scala dei fratelli“.
Dunque Frédéric sistema come può il suo passato teutonico e si fa inghiottire dal caldo di Tel Aviv. Una città appoggiata sulla sabbia: nulla di meno affidabile e tranquillizzante. Per fortuna che da quella sabbia, un bel giorno, spunta Benjamin, vale a dire Benjamin Zeev Herzl, meglio conosciuto come Theodor Herzl, teorico del sionismo moderno. Un personaggio a metà strada tra uno spettro e un amico immaginario a cui Frédéric decide di regalare la sua mano destra, avambraccio compreso, e col quale inizia a dialogare regolarmente seguito come un’ombra da César deciso ad immortalare le stranezze di suo fratello con la macchinetta fotografica digitale della Svizzera. Lasciare la perfetta organizzazione linguistica tedesca e ritrovarsi dentro una lingua del tutto nuova come l’ebraico è un’esperienza d’impatto. “Occorre pensare in maniera diversa. Dovrò spostare i tramezzi nella mia testa. Ci sono abituato. Non è fonte di sofferenza potenziale. L’ebraico riorganizzerà tutto. Occorre pensare in maniera così diversa che occorre voltarsi e leggere nell’altro senso, da destra a sinistra […] È possibile che se le parole si presentano nell’altro senso io riesca a vivere con la pienezza cui tutti hanno diritto. Ne ho una gran voglia“. Imparare una lingua nuova e diversa come l’ebraico, è un modo per comprendere se stessi e la propria identità, cambia le prospettive, modifica le percezioni. “Imparare una lingua mi ha sempre permesso di scoprire come devo guardare il mondo in cui vivo“.
Il flusso di coscienza di Frédéric è travolgente ed inesauribile, un getto privo di ostacoli che viene però interrotto, di tanto in tanto, da flash back che ci riportano indietro al passato di suo padre Paul, quasi a marcare un divario imponente, una differenza di sostanza tra un padre e suo figlio. Frédéric è sicuramente un ragazzo con dei problemi, si comporta in maniera anomala anche se tutte le sue stravaganze seguono una logica mentale che lui riesce a farci comprendere. Denis Lachaud ha saputo inoltrarsi con garbo ed intelligenza nei labirinti di una mente disturbata ma estremamente affascinante. Lo ha fatto mettendo a fuoco non solo le problematiche adolescenziali ma anche le complicazioni che caratterizzano i rapporti familiari e le immancabili difficoltà comunicative tra genitori e figli. Il quasi 18enne Frédéric è l’emblema di tale realtà portata però ai suoi eccessi. I nessi comunicativi tra Frédéric e il mondo, infatti, sono venuti meno conducendolo gradualmente all’isolamento. Probabilmente dietro questo suo sofferto e inspiegabile allontanamento dal mondo dei suoni delle parole c’è la paura o l’inadeguatezza che tutti i ragazzi, giunti ad una certa età, sviluppano. Non sono una psicologa per questo mi limito a dire che “Frédéric smarrito tra i suoni” è un romanzo che pone l’attenzione su tematiche delicate e profonde, creando un parallelismo molto sottile tra il fragile equilibrio di un ragazzo e quello di una terra, Israele, che probabilmente soffre le stesse fragilità.
Edizione esaminata e brevi note
Denis Lachaud, “Frédéric smarrito tra i suoni“, 66THAND2ND, Roma, 2014. Traduzione dal francese di Sergio Claudio Perroni. Titolo originale: “J’apprends l’hébreu“, Actes Sud, 2011.
Pagine Internet su Denis Lachaud: Wikipedia / Scheda Actes Sud
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