Pacinotti Cristina

Un altro posto

Pubblicato il: 2 Giugno 2016

Abito in campagna, anche se non in un posto isolato come quello di cui si parla in questo romanzo. Dove sto io è una frazione di un paese della “bassa” tra Bologna e Ferrara. Anni fa si parlò di costruire da queste parti un grande centro-divertimenti con negozi e anche appartamenti. Campi di grano, frutteti, alberi, maceri, oasi d’acqua sarebbero stati spazzati via. Eravamo preoccupati. Ci sentivamo in trappola. Ma qualcuno era pure contento. Le case si sarebbero “rivalutate”. Poi per fortuna non se ne fece più niente. Il fatto è che parlare di grandi opere in generale è un conto, ma quando la grande opera te la fanno vicino casa allora è un altro paio di maniche. E non la vuoi. Sei disposto anche a partecipare ad assemblee, comitati di cittadini, perfino riunioni di partito, tutte situazioni in cui non ami stare. Ami la vita tranquilla della tua frazioncina.
“Un altro posto” di Cristina Pacinotti non mi è piaciuto tanto per la tematica che affronta: l’irruzione della grandeopera (come viene sempre chiamata nel romanzo senza mai dire di cosa si tratta) in un’oasi meravigliosa e incontaminata dell’alta Toscana. Mi è piaciuto che la scrittrice ne abbia parlato in modo intelligente e non ideologico. Come? Mostrandoci la vita quotidiana dell’ecovillaggio di Frabosco, che deve essere coinvolto dalla grandeopera tanto da ricevere una disposizione ufficiale dalle autorità in base alla quale deve essere evacuato. L’aia fuori dall’uscio di casa, il bosco in cui si fa legna e lunghe passeggiate, il frutteto, i vario orti, l’allevamento di pecore e capre, il pane da preparare nel forno a legna e le altre mille mansioni giornaliere degli abitanti di Frabosco, la strada da fare per andare in paese a leggere il giornale del giorno prima costituiscono la tessitura su cui è costruito il romanzo. E poi ci sono le persone. Chi narra tutta la storia è Maria che insieme al marito Ema e i loro tre figli ha fondato l’ecovillaggio. Su di loro è costruito l’intreccio dei rapporti umani a Frabosco, gli altri abitanti, come la coppia di norvegesi con i loro bambini, Giovanna, la professoressa di matematica, o Ugo, venuto dalla Sicilia fanno da sfondo e di loro non si parla molto. Il punto di vista che ci viene raccontato su Frabosco e la grandeopera è quello di Maria. È il suo piccolo mondo che verrebbe spazzato via; a questo proposito mi è piaciuto il modo delicato e “amoroso” con cui vengono descritti i gesti che accompagnano la sua vita domestica, i suoi pensieri, le sue rabbie e paure,il suo amore per il marito e i figli. Ma tutto questo piccolo mondo ha ragion d’essere lì in mezzo ai boschi ancora incontaminati tra la Lunigiana e la Garfagnana, dove si raccolgono liberamente funghi, lamponi, more, erbe selvatiche che si è imparato a riconoscere da Eva, una donna antica di anni ed esperienza che ha vissuto tutta la vita in quel villaggio poi abbandonato che i fraboschini hanno rimesso a nuovo per viverci. E tutto questo è reso con una scrittura efficace e coinvolgente che già conoscevo dall’aver letto il precedente suo romanzo “Luogo comune”. Una scrittura semplice, piana quella di Cristina che racconta anche con molti dialoghi un mondo in pericolo. Una comunità e i suoi gesti in pericolo. La grande opera è già cominciata, il cantiere già impiantato, gli operai sono già all’opera.
Ma cos’è Frabosco? È un piccolo insieme di case abbandonate trovate da Maria ed Ema dopo una lunga ricerca. Sono state ristrutturate da un piccolo gruppo di adulti con i loro figli. Chi si dedica alle capre e pecore, chi fa il falegname, chi il contadino, chi come Maria alla conduzione della casa e alla scrittura. Sembrano andare tutti d’accordo. E questa è una cosa bella, non facile in genere, ma loro paiono riuscirci senza sforzo. Anche se i figli di Maria e Ema appena possono se ne vanno in cerca di una vita più movimentata.
Poi qualcuno porta una notizia: Frabosco sarà evacuato. Come ci fosse una guerra o una catastrofe imminente. Ma la mobilitazione per salvare il villaggio è difficile da realizzare. Non siamo più negli anni ’70. Molti della zona sono favorevoli alla grandeopera, porterà lavoro, sviluppo, porterà ricchezza. Nessuno si mobiliterà per impedirla. Allora a Frabosco si decide di fare una festa per mobilitare il mondo degli “alternativi”. La festa riesce bene e come potrebbe essere altrimenti? Bel posto, buon cibo e vino, gente affratellata da identici o simili stili di vita e valori. Ma si respira un’aria di sconfitta. Le mobilitazioni per giuste cause sono in disuso. A volte anche chi le condivide non ci crede più. Strano eh? Condividere qualcosa ma non crederci. È così oggi, se ci pensiamo. Non si crede più che una mobilitazione possa andare al di là dell’avere un valore simbolico. Anche a Frabosco le scelte che funzioneranno saranno quelle individuali. La famiglia di norvegesi decide subito di andare via. Lo aveva fatto per lo stesso motivo lasciando la Norvegia; anche lì una grande opera li aveva costretti a lasciare la loro fattoria. Cercheranno un altro posto dove ricominciare da capo il loro allevamento di pecore e capre. Mano mano tutti gli abitanti di Frabosco a parte Maria e Ema decidono di lasciare il villaggio. Intanto qualcuno venuto da fuori dà fuoco al cantiere della grandeopera. I figli di Maria e Ema si uniscono ai militanti che hanno compiuto questa azione e fuggono con loro. Tutto precipita. Inutile resistere. Dopo un periodo di lontananza i ragazzi tornano. La famiglia si riunisce, ma il sogno di un eden nei boschi svanisce. Ci sono altri ecovillaggi e molti ne stanno nascendo. Maria e Ema andranno a vivere in uno di questi.
Ci vedo una morale nel modo in cui il conflitto vita nei boschi- grandi opere viene affrontato da Cristina. Potrebbe stupire che la comunità di uomini donne e bambini di Frabosco si disgreghi, che ognuno se ne vada in un posto diverso, che ognuno cerchi un altro posto per sé e non per tutti. Ma sempre così succede. Una comunità, se tale, dovrebbe sopravvivere indipendentemente dal luogo dove si è formata. Invece quella comunità poteva esistere solo in quei boschi e non ad esempio in altri. Con tutte le riunioni, i “cerchi” in cui ognuno dice la sua a nessuno viene fatto di dire: costruiamo un altro villaggio per tutti noi in un altro posto; oppure trasferiamoci tutti in quel dato ecovillaggio che già esiste. Questa possibilità non è data. Questa è la morale che ci vedo,forse era quella che la scrittrice voleva comunicare ai suoi lettori. Apparentemente un romanzo contro le grandi opere che distruggono il paesaggio, la fisionomia di un paese, ma in realtà dietro questo tema solo apparentemente centrale ce ne è un altro. Cosa è rimasto degli ideali comunitari del nostro recente passato di occidentali? Poco, forse niente.

Edizione esaminata e brevi note

Cristina Pacinotti si è laureata con lode con Umberto Eco e ha frequentato un dottorato in Linguistica all’EHESS di Parigi. Dopo aver vissuto a Parigi, Berlino, Amsterdam e aver collaborato in qualità di operatrice culturale alla gestione del centro culturale Palazzo Lanfranchi e del Teatro Verdi a Pisa, ha creato e diretto per diversi anni il Centro Discipline Olistiche Nagual, sempre a Pisa. Per l’ETS ha pubblicato, nel 2004, con la presentazione di Dacia Maraini, il romanzo, ambientato nei giorni del G8 a Genova, In quei giorni c’era molta luce. Precedentemente, le opere Anime in Bestia (PIXART), una raccolta di racconti con introduzione di Athos Bigongiali, Chiamarsi Fuori (Stampa Alternativa) e Un corpo per il mio guardaroba (La Salamandra) con la presentazione di Dacia Maraini e illustrazioni di Iacopo Fo.
Nel 2014 ha pubblicato il romanzo Luogo Comune, incentrato sulla creazione di un ecovillaggio in Lunigiana, per la Vivere Altrimenti, con prefazione del sociologo Manuel Olivares, autore di una delle più importanti guide agli ecovillaggi in Italia e in Europa.

Pacinotti Cristina, Un altro posto, Edizioni ETS, Collana Obliqui, pagine 224, 2016, Illustrazione della copertina di GIPI.