Scarpa Tiziano

Stabat Mater

Pubblicato il: 19 Luglio 2016

Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius (La Madre addolorata stava in lacrime presso la Croce su cui pendeva il Figlio). E’ questo l’incipit di una delle preghiere cristiane più famose dedicate alla Madre di Cristo. Una meditazione che celebra il dolore della Madre per la morte di suo Figlio risalente, con buona probabilità, al XIII secolo ed attribuita a Iacopone da Todi. Stabat Mater è anche un tema ricorrente nel mondo musicale classico e tanti sono i compositori che, nel tempo, hanno scritto il loro Stabat Mater: da Giovanni Pierluigi da Palestrina ad Alessandro Scarlatti, da Antonio Vivaldi a Giovanni Battista Pergolesi, da Joseph Haydn ad Antonio Salieri, da Gioacchino Rossini a Franz Schubert oltre a Franz Liszt, Giuseppe Verdi, Andrea De Giorgi ed altri ancora. Non è quindi un caso che Tiziano Scarpa abbia scelto di intitolare questo suo romanzo proprio Stabat Mater.

Cecilia, la giovane protagonista della storia oltre che unica voce narrante, è stata abbandonata poco dopo la sua nascita nel Pio Ospedale della Pietà di Venezia. Siamo all’inizio del ‘700 e l’Ospitale è pieno di bambine e ragazze raccolte dalle suore. Cecilia, come molte altre fanciulle, non ha mai visto molto di più delle stanze e delle mura del luogo che le ospita. La vita, nell’Ospitale, è scandita dai ritmi che le suore stesse vivono. Gli unici, marginali contatti con altri esseri umani avvengono durante le funzioni liturgiche. Cecilia suona il violino, altre compagne suonano viole o flauti, un paio sono state indirizzate verso l’arte del canto. Fin da piccole, infatti, le bambine con un qualche talento vengono avviate allo studio della musica. Don Giulio, il parroco che scrive la note che poi le giovani suoneranno, è ormai molto anziano. “Da quando sono nata, suono quasi soltanto la musica. Per molto tempo, per me, la musica è coincisa con don Giulio, la musica era don Giulio e nient’altro, non sapevo nemmeno che esistesse musica scritta da altre persone, la musica se ne stava chiusa tutta dentro quel corpo vecchio che arrancava in giro per l’Ospitale, e a un certo punto usciva fuori, riempiva gli spartiti, le stanze, la chiesa, i nostri corpi“.

Questo romanzo è, a dire il vero, una lunga epistola. Una lettera senza fine che Cecilia scrive alla propria madre, una donna di cui non sa nulla e che non sa neppure immaginare. Ogni notte, senza sonno, Cecilia si muove silenziosa fra corridoi ed altre stanze per rifugiarsi, mai vista, sui gradini di una scala. E qui, riciclando spartiti vecchi e fogli strappati, scrive a sua madre. Le racconta, e ci racconta, di sé e della sua anima. Un flusso di coscienza che sa commuovere e intenerire, un fluido di parole e pensieri che arrivano a sorprendere per la loro purezza e per l’ingenuità spudorata di chi vive in una dimensione anomala e distorta. Cecilia, da piccola, non sapeva neppure che esistessero le mamme: “prendevo sul serio quello che dicevano di noi, che siamo tutti figli del Signore Dio, mi guardavo intorno e vedevo le compagne, le piccole e le grandi, vedevo le suore, ero convinta che ci avesse fatte tutte Lui, direttamente con le Sue mani, e quando ne aveva terminata una nuova la depositava subito nella nicchia dell’Ospitale, non appena una bambina era pronta“. Per Cecilia l’unico nato da una donna poteva essere solo Gesù perché, nei dipinti, è spesso bambino in braccio a sua madre. La scoperta dell’esistenza di una donna che l’ha partorita, e poi abbandonata, è stato probabilmente un incanto ed un trauma allo stesso tempo.

Le ragazze suonano durante le funzioni religiose. Sono relegate su un poggiolo, a qualche metro da terra. La loro presenza è appena percettibile poiché a proteggerle c’è una elaborata grata metallica. La musica “cade” sulla testa di chi ascolta, “siamo una parvenza che secerne musica. Siamo fantasmi che soffiano una sostanza impalpabile. Noi risultiamo belle perché siamo misteriose e spargiamo bellezza nell’aria, la menzogna della musica maschera la nostra afflizione“. La musica di don Giulio, tra l’altro, non ha più nulla di vitale né di glorificante. E’ stantia e stanca, proprio come il vecchio religioso. Non ha nulla che coinvolga e sfiori l’animo. E’ anche per questo che, ad un certo punto, don Giulio viene sostituito da un sacerdote più giovane coi capelli rossi e col naso grosso. Si chiama don Antonio ed è Antonio Vivaldi. Lui porta tra gli spartiti una rivoluzione fatta di suoni mai uditi, di tripudi e di cascate, di soli accecanti e di ondate marine. Tramuta quel che vede in musica e per le giovani musiciste è un evento pieno di clamore. Cecilia capisce la portata di quel che don Antonio va componendo e don Antonio comprende pienamente il talento musicale della ragazza. Ne diventa geloso, vorrebbe che Cecilia continuasse a suonare il violino per sempre. Vorrebbe trattenerla nell’Ospitale fino alla fine dei tempi. Ma Cecilia ha il suo destino da compiere. Ha il segno tangibile di un disegno strappato e di una madre che avrebbe desiderato ritrovare sua figlia, un giorno o l’altro.

“Stabat Mater” contiene una storia e molta musica, contiene la morte e la vita, contiene dolore e dimenticanza. Le parole di Cecilia indagano turbamenti che non è semplice raccontare perché conducono al centro del legame ancestrale che unisce indissolubilmente il ventre di una madre alla carne del proprio figlio. Qui c’è soprattutto l’afflizione di una figlia che scava nel corpo di sua madre alla ricerca di una ragione che spieghi l’abbandono. Nel monologo della giovane violinista ci sono lo strazio e la speranza, l’incomprensione e l’amore: contraddizioni inevitabili e pietre d’inciampo necessarie. Scarpa, nella nota che chiude questo libro, spiega che “Stabat Mater” vuole essere soprattutto un omaggio ad Antonio Vivaldi, il suo compositore preferito. Alla storia di Vivaldi, qui volutamente romanzata e, a tratti, dichiaratamente falsificata, si mescola la vicenda delle orfane del Pio Ospedale della Pietà di Venezia per le quali egli scrisse effettivamente musica. Una commistione di elementi che fa di “Stabat Mater” un’ottima lettura, meritatamente gratificata, nel 2009, con il premio Strega.

Edizione esaminata e brevi note

Tiziano Scarpa è nato il 16 maggio 1963 a Venezia. E’ un autore eclettico e versatile. Ha scritto romanzi ma anche testi per il teatro, saggi, poesie e racconti per bambini. Ha composto testi per musica e ha lavorato per la radio. E’ uno dei fondatori del blog collettivo “Nazione Indiana” oltre che collaboratore della rivista on line “Il primo amore” (pubblicata anche su carta dalle edizioni Effigie). Tra i suoi libri: “Occhi sulla graticola” (Einaudi 1996 e 2005), “Amore®” (Einaudi 1998), “Venezia è un pesce” (Feltrinelli 2000), “Cos’è questo fracasso?” (Einaudi 2000), “Nelle galassie oggi come oggi” (con Raul Montanari e Aldo Nove, Einaudi 2001), “Cosa voglio da te” (Einaudi 2003), “Kamikaze d’Occidente” (Rizzoli 2003), “Corpo” (Einaudi 2004 e 2011), “Groppi d’amore nella scuraglia” (Einaudi 2005 e 2010), “Batticuore fuorilegge” (Fanucci 2006), “Amami” (con Massimo Giacon, Mondadori 2007), “Comuni mortali” (Effigie 2007), “Stabat Mater” (Einaudi 2008), “L’inseguitore” (Feltrinelli 2008), “Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto” (Amos 2008), “Le cose fondamentali” (Einaudi 2010 e 2012), “La vita, non il mondo” (Laterza 2010), “Il brevetto del geco” (Einaudi 2016).

Tiziano Scarpa, “Stabat Mater”, Einaudi, Torino, 2008.

Pagine Internet su Tiziano Scarpa: Wikipedia / Intervista (Mangialibri)