Slataper Scipio

Il mio Carso

Pubblicato il: 25 Luglio 2006

PREMESSA AL TESTO

Il mio Carso” è un’opera assai frammentaria e dalla genesi piuttosto complessa, è utile quindi ripercorrerne le tappe.

La primissima idea di ambientare nel Carso un’opera venne a Slataper nel 1908-09, ma è solo nel 1910 che l’idea assume contorni più precisi e concreti.

Il primo brano che viene realizzato è La Calata, che Slataper invia subito ad Anna/Gioietta insieme ai versi “Ho voglia di cose lievi”, che poi finiranno pure ne “Il mio Carso”.

Dopo poco scrive La Salita, che pubblicherà su “La Voce”. Con revisioni, i due testi entreranno nell’opera principale, La Calata farà da anello di congiunzione tra la parte Bimbo e quella Adolescente. La Salita chiuderà la seconda parte, cui seguirà la sezione Giovane e poi infine Tra gli uomini.

Il suicidio di Anna/Gioietta interromperà il lavoro di Slataper, che vi tornerà nel 1911 con già in mente la struttura dell’opera.

Il lavoro più notevole sarà la rielaborazione de La Calata, ma Slataper spesso affronta e rivede i vari frammenti de “Il mio Carso” senza seguire l’ordine che dovrebbero avere a lavoro finito.

Per l’ottobre 1911 Slataper ha finito il manoscritto, un’altra rifinitura verrà effettuata a Firenze nei primi mesi del 1912, alla fine di maggio “Il mio Carso” esce, XX dei “Quaderni della Voce” raccolti da Giuseppe Prezzolini, stampata a Firenze.

Nell’opera vi sono anche brani delle lettere di Slataper alle “tre amiche”.

IL TESTO

Passioni, entusiasmi, desiderio di trovare una collocazione e il proprio ruolo nella vita e nella società.

Opera di formazione, di apprendistato, né romanzo, né autobiografia o diario in senso stretto, costruita per frammenti a volte densi di lirismo, a volte enfatici e artificiosi.

Il filo conduttore sta nell’avventura esistenziale del protagonista, nato nel Carso e ad esso legato indissolubilmente. La prima scoperta del mondo, le figure familiari, le nonne, il giardino ricco di piante e frutti, luogo affascinante e misterioso dei primi contatti con la natura .

Entusiasmo e ingenuità infantile.

E poi gli amici,la compagnia di ragazzini coetanei e la prima consapevolezza di un mondo più grande, impegnato in una guerra seguita sulla carta geografica.

Feste familiari, parenti, pranzi domenicali, tutti riuniti nella grande casa e ancora giochi di ragazzi, mare, avventura e i primi interessi per le fanciulle, per una in particolare, alla fine però considerata meno importante delle movimentate avventure con gli amici. Piccola Vila gentile e tenera, prime inquietudini di un artista in formazione.

Episodi di ampio respiro e frammenti sempre, quadri d’ambiente, vita di campagna.

E Scipio cresce e si ammala. Sei mesi sul Carso per guarire.

Ed è quasi estasi panica, libertà, adesione totale alla natura.

Pennadoro è nato, eroe quasi romantico, nuovo, ancora intatto.

Gli ideali splendono ancora, la vita non li ha intaccati e portati via.

L’eroe non può rimanere fermo, l’andare è il suo destino, “nostalgia irrequieta” lo chiama. Come Alboino scende. Incontra il popolo slavo, la sua è una terra crogiolo di razze.

Nasce il poeta e la sua missione, manifestazioni di piazza, speranze, dispregio alla borghesia sfaccendata e ricerca di sé nel popolo delle osterie più oscure.

Trieste, città di frontiera, mescolanza di genti, porto, movimento continuo.

L’eroe è cresciuto, ha incontrato una ragazza, ma è infiammato anche dalla patria, da chi ha combattuto per lei, Garibaldi, Oberdan(k).

Ancora passione, discussioni, coraggio di esporsi.

Tra problemi familiari e una mamma malata. E sempre, sempre passione e comunque entusiasmo. A volte ingenuità. A volte disforia, nulla, noia espressa a frasi spezzate e secche.

La vita richiama, incalza, per riscattare le sorti della famiglia è necessario un lavoro. Lo troverà al giornale.

D’improvviso l’eroe è a Firenze. Sale un monte, un’ascesa che insegna, che educa come sempre la montagna: affrontare le difficoltà, vincere la fatica, avere una meta e conquistarla. Di slancio. “Tutto è sensazione di ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo; altro no. E non devo esser che io, in vetta”.

Poi la scena cambia, mare, versi per una ragazza amata.

Neppure l’eroe viene risparmiato dalla vita. L’amata si è uccisa, lasciandolo solo e disorientato.

Voglia di partire e di andare lontano.

Invece ritrova il Carro, ”avevo bisogno di sassi e sterilità”. Solitudine e dolore. Tedio e noia. Straniamento dalla vita. Sogni, fantasie oniriche.

Anche lo stile ha una caduta, artificioso o troppo enfatico. Divagante e retorico. Manca la pace, manca la sintonia con la natura.

La letteratura sembra vinta dalla durezza della vita e si articola in lamenti, invocazioni, divagazioni, dialogo vano con chi non è più.

Notte. Silenzio. Pianto.

Solo dal fondo dell’abisso si può risalire. “Io vado avanti. Io sono un poeta. Sì, vado avanti, certamente”

Carso che sei duro e buono!” Nuova consapevolezza. “Noi vogliamo amare e lavorare”. Vita con gli altri uomini, ancora e sempre impegno e consapevolezza.

QUALCOSA DI PIU’

Il testo di Slataper si presenta assai discontinuo, frammentario appunto, vario nei suoi registri, eppure costruito letterariamente, come dimostra la lingua usata: ricca di figure retoriche, di termini ricercati, licenze sintattiche, ma anche di voci dialettali. Una lingua che talvolta sconfina nell’enfasi, nella retorica, ma che è capace di aperture felici e liriche assai intense.

L’ambiente de “La Voce”, del resto, del quale Slataper è stato parte, si distingueva, in quella fase, per impegno, serietà morale, voglia di rinnovamento e per la produzione di scritti biografici e lirici.

L’incipit de “Il mio Carso” con la sequenza anaforica dei “Vorrei dirvi…” è piuttosto felice, seguono poi alcune delle sequenze più articolate del testo (gli episodi dedicati all’infanzia, alla famiglia, al giardino, a Vila).

E’ il contatto con la natura però che infiamma maggiormente l’autore: “Correvo col vento espandendomi a valle, saltando allegramente i muriccioli e i gineprai, trascorrendo, fiondata sibilante. Risbalestrato da tronco a frasca, atterrato dritto sulle ceppaie e sul terreno, risbalzavo in uno scatto furibondo e romoreggiavo nella foresta come fiume che scavi il suo letto. E dischiomando con rabbia l’ultima frasca ostacolante, ne piombavo fuori, i capelli irti di stecchi e foglie, stracciato il viso, ma l’anima larga e fresca come la bianca fuga dei colombi impauriti dai miei aspri gridi d’aizzamento.”

O ancora: “Amo la piova pesa e violenta. Vien giù staccando le foglie deboli. L’aria è piena di un trepestio serrato che pare una mandra di torelli. L’uomo si sente come dopo scosso un giogo. Ai primi goccioloni balzo in piedi, allargando le narici. Ecco l’acqua, la buona acqua, la grande libertà.” “Tutto m’era fraterno”.

Nasce Pennadoro, che è poi la forma italianizzata del cognome Slataper (in ceco=slato=oro, pero= penna).

Con La Calata nasce la figura di un eroe tardoromantico, destinato a sconfiggere la menzogna e l’ipocrisia.

Vi è in Slataper un senso della natura “nordico”, primigenio, intenso, che conferisce alla sua opera un’apertura europea.

A La Calata segue l’ingresso nel mondo del lavoro e della politica, s’affacciano speranze per la sua città e desiderio d’impegno.

“Se voi venite a Trieste io vi condurrò per la marina, lungo i moli quadrati e bianchi nel mare, e vi mostrerò le tre nuove dighe nel vallon di Muggia, fisse nell’onde, confini nella tempesta, costruite su enormi blocchi di calcare cementato.”

Slataper rievoca la figura di uno zio garibaldino in pagine ben realizzate e manifesta tutta la sua simpatia per Garibaldi e Oberdan(k), in pratica per l’irredentismo liberaldemocratico e per una vita impegnata.

“Ho voglia di conoscere altre terre e altri uomini. Perché io non sono affatto superiore agli altri, e la letteratura è un tristo e secco mestiere.”

L’episodio de La Salita (al monte Secchieta in Toscana) gli darà un insegnamento morale. “Tutto è sensazione di ostacolo che bisogna vincere: io e il monte siamo, altro no.” “…tu vai in su: questo solo è vero, tu devi: questo solo è bello”.

La terza parte, che è più debole artisticamente, vede il protagonista sconvolto per il suicidio di Gioietta, estraniato “ Il tempo camminava come si va nei pomeriggi domenicali, portandosi addosso la noia di tutti gli uomini.” “Io passo e lascio passare, e guardo questa ignota vita come un forestiero”.

L’unione con la natura non c’è più. “Che ho commesso io di non potermi fondere dentro quest’ora calda in cui una divina certezza d’amore freme da foglie e tronchi e fiori e uccelli e sole?”.

Il Carso solo può far ritrovare la vita. “Il Carso è un paese di calcari e ginepri. Un grido terribile, impietrito”.

L’artista rinasce. “Io voglio rifarmi forte e duro.”

Una “fresca pace” ritorna al contatto con la natura.

“Come il corpo s’adagia avidamente sulla terra! Le braccia si distendono grandi su di essa, il mio respiro si fonde come una preghiera nell’infinita aria gioconda”.

Il suo destino è tra gli uomini però: “Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data. Essa ci strappa dai nostri piccoli dolori, e ci fa suoi, e ci fa fratelli di tutte le patrie combattute. Essa ci ha tirato su per la lotta e il dovere”.

Articolo apparso su lankelot.eu nel luglio 2006

Edizione esaminata e brevi note

Scipio Slataper (Trieste 1888- Podgora 1915), letterato italiano. Negli anni del liceo inizia a frequentare irredentisti e socialisti, pubblica con lo pseudonimo di Publio Scipioni articoli letterari e politici su “Il Lavoratore” e “Il Palvese”, rivista letteraria. Dopo il liceo si trasferisce a Firenze, dove si iscrive alla facoltà di Lettere e incontra Prezzolini, Papini e Soffici, collabora a “La Voce” e ne diviene, nel 1912, segretario di redazione. Nel 1912 si laurea con una tesi su Ibsen, esce “Il mio Carso” e Slataper collabora alla “Rivista Ligure”, a “Cronache letterarie” e al “Giornalino della Domenica” di Vamba.

Successivamente si sposa ed ottiene poi un posto di lettore d’italiano ad Amburgo, dove si trasferisce con la moglie.

Torna in Italia allo scoppio della prima guerra mondiale ed è tra i primi ad arruolarsi come volontario e in guerra morirà nel 1915.

Scipio Slataper, Il mio Carso, Milano, Rizzoli-BUR 1989. Introduzione di G.Cattaneo. Commento di R.Damiani. Il testo è dotato di utilissime note esplicative e critiche, piccola antologia della critica, bibliografia.

Il testo è diviso in tre sezioni numerate.