Pariani Laura

Questo viaggio chiamavamo amore

Pubblicato il: 7 Aprile 2017

Un fauno insaccato in quei miseri panni di fustagno, o un altro essere così, tra divino e ferino…“. È così che Emilio Cecchi, che conobbe Campana di persona, descrive il poeta di Marradi. Un poeta su cui è stato scritto e detto molto e su cui si continuerà a scrivere e dire ancora molto. Perché la seduzione di certa poesia e certe esistenze tormentate non smetterà di grondare incanto. Laura Pariani ha scelto di far parlare l’ultimo Campana, quello semi dimenticato in un manicomio toscano. Un Campana che ha già dismesso se stesso e i versi scritti e poi riscritti perché smarriti da Soffici per chissà quale negligenza. È un Campana nuovamente “visivo”, come scriveva Gianfranco Contini, che recupera memorie e inanella ricordi. Magari solo immaginati.

Il 28 gennaio 1918 Dino Campana viene internato nel manicomio di Castel Pulci, presso Badia a Settimo, Firenze. Ha circa 33 anni e alle spalle una serie infinita di arresti, fermi, internamenti. E poesia. E viaggi. Il suo vagabondare è leggendario. Ha percorso migliaia di chilometri in ogni direzione. Ha imparato altre lingue e cercato una dimensione che, in un modo o nell’altro, gli somigliasse o gli appartenesse in qualche misura. Lo costringono a fermarsi a Castel Pulci, il luogo dove morirà nel 1932. La Pariani vuole raccontare esattamente il Dino Campana di Castel Pulci, quello forse meno raccontato e, proprio per questo, più commovente.

Pensa le sue lettere, l’ultimo Campana. E la Pariani immagina che ogni missiva sia diretta a chi ha popolato il suo passato e i suoi viaggi: dall’amico Regolo che appare all’improvviso sottoforma di moscone nel “salone giallo” del manicomio alle signorine elastiche di Montevideo a cui aveva insegnato ad andare sul velocipede; dallo scambio di dati con il direttore dell’Istat alle chiacchierate con Ludò, la Bellabionda, giovane viaggiatrice di carovana sudamericana; dalla lettera al Peau d’âne, coraggiosa e mascolina guardiana di tacchini, incontrata casualmente nella Pampa alla missiva diretta nientemeno che allo scienziato Edison; dal messaggio rivolto a Donatien-Alphonse-François de Sade considerato fratello nel dolore al ricordo della splendida Nausicaa dalle negre braccia. Un susseguirsi di echi, nostalgie, reminiscenze e cicatrici che la Pariani ha elaborato con estrema verosimiglianza avvicinando la voce di Campana all’uso di una lingua che è tipico del primo Novecento.

Oltre alle “fughe” immaginate, Campana viene invitato a colloquiare anche con il dottor Carlo Pariani, lo psichiatra del luogo. Il dottore conosce il passato poetico di Dino, vorrebbe che il paziente gliene parlasse, che gli spiegasse persino il senso di alcuni versi, ma quel Campana non c’è più ed ogni incontro con Pariani è un tormento: “«Come si sente, signor Campana?» mi domanda il dottore quando viene a trovarmi. Con la voce monotona che sempre usa con me. E le sue parole sembrano arrivarmi molto da lontano. Io al solito rispondo: «Non mi sento». E anche se lui storce la bocca in un falso sorriso, io ribatto che è la pura verità. Non è infatti questione di sentirmi bene o male. Non sento me stesso. Quel «signor Campana» a cui allude, non so chi sia“.

Il personaggio di Campana che la Pariani ha ricreato in “Questo viaggio chiamavamo amore” somiglia molto al Dino Campana che ho sempre immaginato. Una figura sfuggente ma profondissima, un animo tormentato ma scintillante, uno spirito originalissimo ma costantemente incompreso. Il “viaggio” che spesso si richiama è, ovviamente, quello in Sud America che alcuni ritengono che Campana non abbia nemmeno mai realizzato semplicemente perché non si rintracciano testimonianze certe o documentate di tale “avventura”. Che Campana sia partito realmente o meno, onestamente, mi pare irrilevante. Ha scritto di Montevideo e della Pampa, ha scritto di “gravi matrone di Spagna / da gli occhi torbidi e angelici / dai seni gravidi di vertigine“, ha scritto di “Una bianca città addormentata / ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti / nel soffio torbido dell’equatore“, ha scritto di “una fanciulla della razza nuova, / occhi lucenti e le vesti al vento” ed è quanto basta per affermare che Dino Campana è stato in Sud America, in un modo o nell’altro.

Edizione esaminata e brevi note

Laura Pariani è nata nel 1951 a Busto Arsizio. La sua opera d’esordio, “Di corno o d’oro”, è una raccolta di racconti e risale al 1993. In seguito ha pubblicato “Il pettine” e “La spada e la luna” per Sellerio oltre a “La perfezione degli elastici (e del cinema)”, “La signora dei porci”, “La foto di Orta”, “Quando Dio ballava il tango”, “L’uovo di Gertrudina” e “La straduzione” tutti per Rizzoli. Più recenti “Le montagne di Don Patagonia” edito da Interlinea, “Il piatto dell’angelo” (Giunti) e  “Nostra signora degli scorpioni” con Nicola Fantini (Sellerio). Per Einaudi ha pubblicato “Dio non ama i bambini” (2007), “Milano è una selva oscura” (2010, finalista al Premio Campiello), “La valle delle donne lupo” (2011) e “Questo viaggio chiamavamo amore” (2015).

Laura Pariani, “Questo viaggio chiamavamo amore”, Einaudi, Torino, 2015.

Pagine Internet su Laura Pariani: Sito ufficiale / Wikipedia / Scheda Einaudi

Pagine Internet su Dino Campana: Minima & Moralia / 900 Letterario / Rai Scuola / Dino Campana