Istrati Panait

Il bruto

Pubblicato il: 8 Giugno 2020

Un racconto o, meglio, un romanzo breve: ecco cos’è “Il bruto” di Panait Istrati. Il titolo originale dell’opera, pubblicata per la prima volta nel 1926, è Kodín (in rumeno) o Codine (in francese), ossia il nome del personaggio che, nella versione italiana, è divenuto semplicemente il “bruto”. A dire il vero di brutale nella figura di Kodín c’è solo l’apparenza o, meglio, la “maschera” aggressiva e cattiva che è stato costretto a costruirsi per farsi accettare o per farsi rispettare dagli altri. Il racconto è invece affidato alla voce di Adrian, un ragazzino che, in una narrazione che è sempre in prima persona, ci descrive la nascita e gli sviluppi della sua amicizia con il più adulto Kodín.

Adrian Zograffi è, in più opere, l’alter ego dello scrittore romeno. Infatti questo romanzo breve è la prima parte del ciclo di opere intitolate “La vie d’Adrien Zograffi”. Ne “Il bruto” il piccolo Adrian vive con sua madre, una donna che cerca di tirare avanti come può facendo la lavandaia (esattamente come la madre di Panait) ma che, di tanto in tanto, “appena avverte che gli intrighi del vicinato possono trascinarla nel loro gorgo“, decide di traslocare altrove. “Ho potuto così conoscere gli ulitza, i quartieri più caratteristici della nostra città di Brăila: quello russo e quello ebreo, quello greco e quello zingaro. E dovunque trovavo usi e abitudini nuovi. Mia madre, però, quando mi annunciava, dopo averne viste di tutti i colori, la festa di un trasloco, un avvenimento per lei sempre triste, diceva: «Le nazioni pregano Dio in molti modi, ma lo pigliano tutte in giro in un unico modo»“. Adrian ha dodici anni quando si trasferisce con sua madre alla Comorofca, “il quartiere più malfamato di tutta la periferia“. Un quartiere degradato, pieno di gente misera e di delinquenti di ogni risma, un sobborgo in cui la polizia non osa mettere piede.

Zoiza, sua madre, lo educa al rispetto di tutti ma sa bene che alla Comorofca suo figlio può incontrare gente pericolosa. Adrian impara in fretta le leggi della sopravvivenza del luogo in cui abita e presto si imbatte in un uomo vestito quasi elegantemente che gli chiede un favore. Adrian esegue con gentilezza e non vuole nulla in cambio, neanche il misero soldo che l’uomo gli offre. Nel parlare, il ragazzino scopre che la persona che ha davanti altri non è che Kodín, l’inquietante personaggio che tutti temono per la sua ferocia e che molti chiamano assassino. “Non so spiegarmelo, ma nonostante l’avversione che provavo per il loro tremendo modo di vivere, questi uomini mi facevano meno paura di un ragazzino abile lanciatore di sassi – e mi attraeva il mistero della loro esistenza tormentata, senza però che avessi mai osato avvicinarne uno“.

Fin da subito Kodín sembra voler impartire al giovane Adrian lezioni di vita e di sopravvivenza: “Il male, l’unico male, è l’ingiustizia: per esempio se catturi un uccello e lo chiudi in una gabbia; oppure se invece di dare al tuo cavallo l’avena lo prendi a frustate. Queste sono ingiustizie. E ce ne sono tante altre“. Tra l’ingenuo Adrian e il delinquente Kodín si instaura, nell’arco di poco, una particolare amicizia. “Ti andrebbe, Adrian, che diventassimo amici? Tu mi insegnerai quel che t’insegnano Dio e tua madre, e io ti dirò quello che so, perché ne so tante, Adrian, anche se sono una bestia, una bestia che può spaccare una pietra con un pugno“. Kodín è consapevole di non poter essere un buon esempio per il ragazzino, è un assassino e ha espiato coi lavori forzati i suoi reati. È un uomo consapevole del veleno che scorre nel suo sangue, degli orrori che ha subito e che ha fatto subire, della sua infanzia fatta di insulti, violenze e soprusi che lo ha indotto a divenire ciò che è: l’uomo che tutti rispettano. Le attenzioni che riceve arrivano però dal timore non dall’affetto vero. Lo sa bene, Kodín, e spesso se ne addolora.

Anche per questo il rispetto e l’ammirazione che scorge negli occhi del giovanissimo Adrian sono per Kodín qualcosa di nuovo e commovente. La sensazione è proprio quella di un magico e sconvolgente incontro tra due universi completamente opposti ma, proprio per questo, anche complementari e sorprendenti nella loro fusione. La brutalità e l’innocenza; la violenza e la semplicità; l’aggressività e la dolcezza. In alcuni momenti sembra che sia Adrian la guida di Kodín e non il contrario. Il “bruto”, in fondo, vorrebbe solo rintracciare negli altri un affetto disinteressato e candido che non fosse condizionato dalla paura che lui sa incutere. Impresa complicata in un mondo in cui vale solo la legge del più forte. Il mondo descritto da Istrati è quello di una periferia d’altri tempi che, però, somiglia in maniera fin troppo evidente alle periferie delle città contemporanee, lì dove si muove un’umanità fatta di emarginati, dimenticati, diseredati. Un’altra epoca quella raccontata da Panait Istrati ma, per molti versi, tanto simile ai tempi che viviamo anche oggi.

Edizione esaminata e brevi note

Panait Istrati è nato a Brăila, in Romania, l’11 agosto 1884, figlio di una lavandaia e di un contrabbandiere greco di Cefalonia. Perse suo padre quando era ancora molto piccolo. Nel corso della sua vita Istrati fece innumerevoli mestieri percorrendo diversi Paesi del Mediterraneo. Qualche suo racconto e qualche suo articolo vennero pubblicati dopo il 1907 da alcune riviste romene. Nel 1916, ammalto di tubercolosi, venne accolto in un sanatorio svizzero dove cominciò a imparare il francese grazie all’amico Josué Jéhouda. Una volta guarito iniziò a scrivere in francese e, nel periodo della Prima Guerra Mondiale, vagò come apolide in varie località europee. Nel gennaio del 1921 Panait Istrati tentò di suicidarsi e venne salvato dalla moglie. Addosso gli venne trovata una lettera che non era mai stata spedita a Romain Rolland, lo scrittore francese per cui Istrati nutriva un’immensa ammirazione. Rolland seppe dell’accaduto e rispose a Panait incoraggiandolo a scrivere e a mandargli un suo romanzo. Anche per questo nel 1923 Panait Istrati riuscì a pubblicare “Kyra Kyralina”, il suo libro più famoso, che fece parte del ciclo dei “Récits d’Adrien Zograffi” (“Oncle Anghel”, 1925; “Présentation des Haidoucs”, 1925; “Domnitza de Snagov”, 1926), continuando con “La vie d’Adrien Zograffi” (“Codine”, 1926; “Mikhaïl”, 1926; “Le pêcheur d’éponge”s, 1927). Ha continuato poi con “Nerrantsoula” (1927), “Les chardons du Baragan” (1928), “Mes départs” (1928), “Pour avoir aimé la terre” (1930) e altri ancora. Istrati è morto nel 1935 in un sanatorio di Bucarest quando era ormai caduto in disgrazia perché accusato accusato dai comunisti d’essere “fascista” e dai fascisti di essere “trotskista” e “cosmopolitista”. Durante la Seconda Guerra Mondiale i suoi lavori vennero vietati in Francia e lo stesso accadde in Romania durante il regime comunista. È stato riscoperto solo dopo il 1960 e da allora i suoi scritti sono ripubblicati un po’ ovunque.

Panait Istrati, “Il bruto“, Edizioni e/o, Roma, 2012. Traduzione dal francese di Goffredo Fofi. Titolo originale “Codine” (1926).

Pagine Internet su Panait Istrati: Wikipedia / Open Library