Ferraguti Mario

Rosa spinacorta

Pubblicato il: 6 Luglio 2022

Tecla è una bambina abbandonata, raccolta dalle suore di un convento della Bassa padana, in un secondo dopoguerra appena accennato, talmente lontano da quel mondo rinchiuso da non restare neppure sullo sfondo. Di questo universo parallelo cogliamo gli aspetti più oscuri, tristi, disumanizzanti. Ci sono figure spettrali e quasi uscite dalla stessa terra (la donna che lava via la paura, il rabdomante), inquietanti presenze a mezzo fra angelo custode e demone (la donnadischiena), le suore stesse sono una specie di entità collettiva priva di personalità, meccanismi di un ingranaggio sempre uguale. E poi c’è la Regina, una statua lignea raffigurante la Madonna da adornare, abbellire, agghindare per tutte le occasioni di esposizione alla devozione popolare. Per compiere questa delicata operazione, da tempi immemori si sceglie una ragazza che viene istruita all’uopo, ma che tale scelta fa quasi scomparire dal mondo. La vestizione delle statue delle Madonne “da processione” è una pratica ancora viva in alcuni luoghi del Sud Italia, ma il cerimoniale descritto da Mario Ferraguti con le sue regole ferree e l’elezione (qui in sembianza di vero sacrificio) della giovinetta che vi si dovrà dedicare, di fatto è stato eliminato con il Vaticano II.

La narrazione della protagonista prende l’avvio in una stagione che dall’età dei giochi si apre alla giovinezza, senza svelare quasi nulla dell’infanzia, come se la scelta che ricade su Tecla la privasse anche della memoria. Il corpo che veste la Regina deve scomparire, farsi trasparente, perché la terra dà primato al Cielo, la donna in carne e ossa alla dea. Né la sensibilità religiosa, né la fede trovano posto in questi rituali in bilico fra il devozionismo e il paganesimo: la Regina ha gli occhi morti, non c’è scintilla vitale, è una creatura inerte, non ascolta, non risponde. Tecla intesse con lei, divenuta ormai sua quasi unica compagna di tante ore, un dialogo che è monologo. Dalla torre in cui la statua è conservata assieme al ricco corredo, ai gioielli, ai cosmetici per il trucco, ai mille addobbi e segreti per dare al legno una parvenza di carne, la giovane prescelta osserva il mondo, quella minuscola porzione di mondo che è il convento e i suoi dintorni più immediati. Pochi contatti, ridotti al minimo con le suore, spezzati con le coetanee nel momento in cui viene deciso che sarà lei a vestire la Regina: unico essere umano ad averne in qualche modo cura, in un modo strano, è la misteriosa donnadischiena, che la inizia all’arte della vestizione della statua e le impartisce qualche strana lezione di catechismo e di vita, lei che pur senza essere mai diventata suora, aveva svolto lo stesso compito e ora, quasi “maestra delle novizie”, prepara le prescelte. E intanto il “grande fiume” si porta via un Presepio vivente, iconica rappresentazione di un mondo alla deriva perpetua, se un essere umano deve essere sacrificato a un idolo (questa la mia personale lettura dell’episodio dal sapore guareschiano).

Tra una formula magica e i segreti atavici per conservare sempre fresche e rosse le rose spinacorta che adornano la Regina, Tecla del tutto inconsapevolmente attira le attenzioni di un essere isolato dal mondo quanto lei, irriso da tutti per la sua deformità fisica e mentale, ignorato dalla stessa famiglia che sopporta a stento di farlo uscire dall’istituto ove è rinchiuso per le passeggiate domenicali. Filippo il matto però trova il modo per entrare – a forza – nella torre e nella vita di Tecla. Di qui la storia prende una piega diversa, un po’ meno straniante, forse perché il corpo che reclamava un’esistenza, ne trova una diversa, più completa, anche se le porte del convento si chiudono per sempre.

Anche la Regina avrà un suo speciale momento di gloria, al fianco di una Tecla resa incredibilmente saggia dalla nuova condizione, che la porterà a ottenere nientemeno che un quadro ex voto realizzato da Antonio Ligabue.

La ricerca etnologica di Ferraguti sui rituali di vestizione della Madonna, così come sui riti ancestrali che raccontano un’Italia cristianizzata solo in superficie, così simile nei rigurgiti pagani da Nord a Sud, nelle superstizioni e nelle antiche credenze, sembra fuggire anche solo l’ipotesi che esista un qualche tipo di fede più metafisica, più sincera per così dire: si assiste solo a una grande recita, al massimo sacra rappresentazione come il Presepe vivente (poi galleggiante) per la quale il copione si ispira a testi svuotati di qualsiasi significato soteriologico. Qui vacilla leggermente, a mio avviso, la narrazione in prima persona: Tecla se veramente fosse stata cresciuta in convento, avrebbe sviluppato quanto meno un timore reverenziale nei confronti del compito affidatole e non la repulsione che si coglie fin da subito e si giustifica, ma con la mente del nostro tempo, ripulita, e anestetizzata anche, dall’assenza di qualsiasi sacralità.

Tra la bambina e la statua in realtà si costruisce un “rapporto” che giustamente evolve nel tempo: Tecla confonde la statua con ciò che essa rappresenta, in questo non certo prima o sola, considerata l’importanza per la devozione popolare delle raffigurazioni soprattutto tridimensionali di Madonne e Santi. Questa consapevolezza fin troppo marcata che la Regina non può nulla, cede alla fine, quando la protagonista si rivolgerà a lei per l’ultima volta: Tecla che non ha mai chiesto nulla ha bisogno di un piccolo miracolo, in nome almeno delle cure prestate, in nome di quella “trasparenza” quasi raggiunta anche se non completata. E la grazia ricevuta che diventa ex voto tra le mani di un Ligabue sfuggente e incuriosito dalla compagna di viaggio di Tecla più che dalla richiesta di un quadro fuori dall’ordinario, sembra voler dare a Tecla la consolazione della possibilità che il Cielo, qualche rara volta, si chini davvero ad ascoltare la terra.

Delicatissimo il finale: per anni le suore vedranno arrivare in Chiesa una donna, via via più anziana, con le rose spinacorta sempre fresche per la statua della Madonna: le suore hanno perduto il segreto della loro coltivazione e del loro mantenimento, ma non chi si è preso cura della Regina.

Ferraguti racconta, attraverso la vicenda di Tecla, un lembo di Italia tra i più arretrati del secondo dopoguerra, e lo fa dalla prospettiva assai particolare di un convento, luogo di riparo obbligato dalla fame e dalla cattiva sorte per più di qualche bambina e ragazza, soprattutto povera, quando non orfana. Ma lungi dall’essere oasi di pace, questi ambienti diventavano (purtroppo spesso) vere prigioni dell’anima e del corpo, che avvizzivano insieme e anzitempo, e producevano persone incapaci di amare. A questa pena che non si osava riconoscere, si aggiunge una religiosità superstiziosa e magica, alimentata dalle storture di una Chiesa maschilista interessata soprattutto a mantenere il potere sulle anime. Ne diventano complici tutti, e solo Tecla sembra salvarsi grazie a una violenza in qualche modo provvidenziale che la fa uscire dal mondo recluso delle suore, delle statue e delle rappresentazioni più e meno sacre, per riportarla  nel mondo vero e vivo dei suoi simili.

Ilde Menis, luglio 2022

Edizione esaminata e brevi note

Mario Ferraguti, Rosa spinacorta, Roma, Exòrma, 2022

Mario Ferraguti (1968) vive a Faviano Superiore, sulle colline di Parma. Per anni ha percorso l’Appennino alla ricerca di storie; da questi viaggi ha realizzato, insieme a registi e illustratori, libri e film. Ha pubblicato i romanzi Malalisandra (edizioni Cadmo), Dove il vento si ferma a mangiare le pere (Diabasis), La voce delle case abbandonate e La ballata del vento (Ediciclo) e, con Giacomo Agnetti, I mostri d’aria (Ediciclo). Da alcuni testi sono nati anche spettacoli teatrali. Collabora con università, centri di studio e ricerca, settimanali e riviste; ed è tra gli organizzatori del Piccolo Festival di
Antropologia della Montagna che si tiene a Berceto [dalla presentazione dell’Ufficio Stampa Exorma]