Verde Carmen

Una minima infelicità

Pubblicato il: 29 Novembre 2022

Anna viene chiamata Annetta perché non cresce come fanno le altre bambine della sua età. Nel mancato allungamento delle sue ossa c’è la cosciente e recepita volontà di non voler diventare grande. “Se ci vuole ostinazione per non crescere, io ne avevo anche troppa” si legge fin dall’inizio di Una minima infelicità di Carmen Verde. Non crescere vuol dire perseverare nell’essere figlia o, forse, il reiterato accanirsi nel riconoscersi “minima. Annetta ama perdutamente sua madre, l’ama di quell’amore che si nutre per lo più di brandelli d’affetto, di penombre sfinate, di solitudini mute. Sofia Vivier è bella, inafferrabile, misteriosa, elegante e sfugge a chiunque provi ad entrare nella sua orbita. Anche a sua figlia.

Sofia ha imparato l’infelicità fin da bambina: “Fu nonna Adelina a insegnare a mia madre l’infelicità. Non dovette essere complicato: Sofia era un’allieva volenterosa. Si era preparata già da ragazza la sua bella stanza, scegliendone con cura i mobili, i tendaggi, i tappeti. Quando sposò mio padre la portò con sé, come una dote“. L’infelicità, scrive la Verde, è un luogo fisico. Quindi è spazio, dimensione nella quale si vive (o si sopravvive), materia che delimita, vuoto che inonda. Gli occhi di Annetta seguono la madre, la cercano, la assorbono perché le distanze che l’infelicità riesce a creare in un corpo, o in una casa, sono sempre insanabili. Annetta trascorre la sua infanzia e la sua adolescenza bramando le attenzioni materne eppure i suoi sforzi, guidati da una passione radicata e ancestrale, sembrano perennemente vani.

Lo scorrere del romanzo è caratterizzato da brevissimi inserti in cui la memoria si sofferma su scatti fotografici minimi, anche questi: uno sguardo a seguire un volo d’uccello, figure che ci sono senza esserci, raggi di sole che accecano. La scrittura di Carmen Verde fluisce lieve e abbagliante, costellata di puntiformi richiami poetici: la sua arte sta nel tramutare certe comuni esistenze in complesse esplorazioni emotive. Annetta e Sofia reggono, da sole, l’intera architettura narrativa. A loro si affiancherà, quasi nel mezzo, la figura della domestica Clara Bigi. “Era una donna sciatta. Spolverava ogni cosa con lo stesso straccio lurido. Spesso veniva in camera mia, ad accertarsi che facessi i compiti e a impormi le sue regole insensate: stare dritta con la schiena, non fare cancellature sul quaderno [] Mia madre, invece, sembrava non vedermi piú. La prepotenza di Clara scavava tra noi un solco ogni giorno piú profondo“.

Una figura grottesca e perfida quella della Bigi, un personaggio che chi legge non può non detestare “a pelle”: Sofia sopporta e soccombe, Annetta col tempo imparerà cattiverie dalle sue cattiverie. Il frangente venefico rappresentato da Clara occupa lo spazio di alcuni capitoletti, poi tutto torna alla coppia figlia-madre, anzi a una figlia che cresce (senza crescere) e osserva, scavandole, le percezioni materne: “Povera Sofia. Credeva nell’amore come altri credono in Dio, ma in lei l’amore non aveva mai creduto. Quante volte, tornando verso casa, si era fermata a osservare le finestre dei vicini, chiedendosi perché a lei fosse negato ciò che gli uomini e le donne dietro quelle tende, dentro quei rettangoli di luce, invece sembravano avere. Che altri avessero trovato l’amore: ecco cosa la turbava di piú. Che persino Clara Bigi lo avesse trovato. Persino lei“.

L’infelicità è, in questo romanzo, un’entità ereditaria e pulsante che dilaga senza saper guarire: “Non è indispensabile essere felici” scrive la Verde. E pare che questa regola coinvolga tutti, in casa. “Papà era infelice, come noi, non meno di noi. Scoprirlo fu elettrizzante, annullò subito ogni distanza. Finalmente qualcosa ci univa, faceva di noi una vera famiglia“. Un “crudele disinteresse” a cascata, quasi fisiologico, si è riversato, negli anni, dalla madre sulla figlia e dalla figlia sul padre. Eppure tra le scaglie dell’infelicità paterna, Annetta riconosce il suo stesso sentire, quello che la spinge, a un certo punto, ad avvicinarsi all’uomo che non ha mai cercato di tenere vicino al suo cuore. Lo scandagliare, con stile rarefatto ed empatico, i luoghi dell’infelicità conduce Carmen Verde, e noi lettori, in una delle regioni più intime della coscienza, quelle che, spesso, cerchiamo di ovattare o tacitare perché tutti, istintivamente, abbiamo paura di esplorare le ragioni del nostro stesso stare nel mondo.

Edizione esaminata e brevi note

Carmen Verde è nata a Santa Maria Capua Vetere ma vive a Roma. Diversi suoi racconti sono stati pubblicati in antologie, saggi, riviste e plaquette (Nottetempo, Biblohaus, Cadillac, Succedeoggi, Cultura e dintorni, Babbomorto editore). Con Alex Oriani ha scritto “Tutta la vita dietro un dito” (Salani editore, 2019), romanzo segnalato dal Premio Calvino 2018. È autrice del segnalibro di “Breve storia del segnalibro” di Massimo Gatta (Graphe.it). “Una minima infelicità” è stato pubblicato nel 2022 per Neri Pozza.

Carmen Verde, “Una minima infelicità“, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2022.

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