Barella Guido

La tortura del silenzio

Pubblicato il: 28 Marzo 2016

Paolo Rumiz lo ha definito il Simon Wiesenthal dei crimini del comunismo rumeno ma, leggendo “La tortura del silenzio”, Marius Oprea ci potrà ricordare semmai Mizushima dell’Arpa Birmana, votato a dare degna sepoltura ai commilitoni morti durante la guerra. La storia di Oprea ci viene raccontata da Guido Barella, giornalista del Piccolo, che anni fa conobbe questo strano tipo di archeologo, pressoché sconosciuto in Italia, e da allora, grazie a frequenti viaggi in Romania, ha potuto testimoniare la sua attività: già dissidente al crepuscolo della dittatura di Ceaucescu, ha fondato successivamente l’Istituto per la ricerca sui crimini del comunismo e, con pochi e fidati collaboratori, si dedica al recupero dei resti delle vittime della Securitate, la polizia politica rumena. Oprea non lo possiamo definire a pieno titolo un Wiesenthal perché la sua caccia ai criminali dei regime totalitario si infrange regolarmente di fronte alla legge: “queste morti sono classificate come omicidi, ma come omicidi comuni ormai prescritti essendo passati più di venticinque anni” (pag.15). Lo stesso Marius Oprea ha spiegato perché il suo lavoro, condizionato sempre da minacce e omertà, sia un percorso ad ostacoli: “ancora oggi non c’è una vera volontà politica di indagare a fondo su questi crimini […] E non lo si vuole fare per un motivo molto semplice: in Romania c’è un oggettivo problema di continuità, i genitori di chi comanda oggi sono coloro che comandavano ieri” [….] i securisti possono sonnecchiare tranquilli” (pag 14). In altri termini la rappresentazione di un paese dove riciclati e camaleonti si sono garantiti l’impunità svendendo gran parte del paese: “E così gli uomini dell’apparato comunista rimasero al potere […] Fin dai giorni della rivoluzione, il problema dei vertici del partito fu quello di non essere mai giudicati e puniti per i crimini del comunismo, perché il potere e il denaro dovevano rimanere nelle loro mani” (pag. 111). Una svendita mafiosa da parte di personaggi in odore di Securitate, ancora annidati nei palazzi del potere e che ha catapultato di punto in bianco la Romania dal grigiore e dalla desolazione del regime totalitario in un capitalismo sfrenato del quale tutt’ora non si comprendono regole e valori.

Il libro di Guido Barella ha un taglio giornalistico, basato più che altro su un collage di interviste e testimonianze dello stesso Oprea, dei suoi collaboratori, dei sopravvissuti al regime; e di celebrità come Dan Voinea, il pubblico accusatore del controverso processo lampo al dittatore e a sua moglie. Quel tanto per delineare un quadro a dir poco efferato del regime di Ceaucescu e della sua corte di famigli: repressione che voleva dire esecuzioni sommarie, fosse comuni, carceri politiche, famiglie sotto perenne ricatto, una polizia politica che incombeva senza pietà e che ancora oggi è rimasta radicata nella mente delle persone. Oltretutto: “Se ai vertici della Securitate le sentenze non piacevano, potevano cambiarle, renderle più severe e anche trasformarle in sentenze di morte” (pag. 68). Comportamenti che ad una prima lettura potrebbero apparire non molto diversi da quelli degli altri regimi dell’est europeo. Quello che fa la differenza nel racconto di Oprea e dei sopravvissuti sono semmai le modalità di questa repressione. Lo stesso titolo del libro prende spunto da quanto accadde nel carcere di Ramnicu Sarat: “venne sperimentata in maniera scientifica proprio la tortura del silenzio: in silenzio si muovevano le guardie e in silenzio, soprattutto, dovevano rimanere – sempre – anche i detenuti” (pag. 153). Altre le torture, non di rado con l’uso degli escrementi e tali da segnare per sempre i sopravvissuti, quelle nel carcere di Piteşti, dove la repressione politica e religiosa significava fare dei detenuti i carnefici dei propri compagni di prigionia, il cibo centellinato per trasformare persone fino a quel momento sane in scheletri ambulanti. Il culmine a quanto pare fu raggiunto tra il 1949 e il 1952,  tanto che Aleksandr Solženicyn  non ebbe remore a definire quell’esperimento carcerario “il più terribile atto di barbarie del mondo moderno”. Leggiamo: “È documentato che gli studenti cristiani che non rinnegavano Dio fossero battezzati ogni mattina facendogli immergere la testa in botti riempite di urina ed escrementi […] Chi non voleva essere più torturato doveva passare dalla parte dei torturatori” (pag. 127). Aggiunge ancora Oprea: “Molti sopravvissuti mi hanno detto che non sono più riusciti a dormire”. Non si stenta a crederlo.

In quarta di copertina una citazione importante per un uomo che da noi è ancora quasi sconosciuto e che nel suo paese tutt’ora deve guardarsi le spalle da qualche antico securista riciclato e chiaramente infastidito dalle sue indagini: “Conosco Marius Oprea per i suoi interventi contro i residui del totalitarismo in Romania. Ho deciso di sostenerlo pubblicamente affinché possa continuare, con i suoi collaboratori, le indagini sui crimini del comunismo.” (Herta Müller, premio Nobel per la letteratura).

Edizione esaminata e brevi note

Guido Barella, nato a Udine, è un giornalista del quotidiano triestino Il Piccolo. È stato per tre mandati consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti.

Guido Barella, “La tortura del silenzio. Storia di Marius Oprea, cacciatore dei criminali di regime”, Edizioni San Paolo (collana Le Vele), Alba 2014, pag. 176.

Luca Menichetti. Lankelot, luglio 2014