Murgia Michela

Accabadora

Pubblicato il: 28 Ottobre 2011

“Accabadora” è uno di quei libri che ritrovi un po’ ovunque. Aver vinto il Campiello, però, non è una garanzia a tutti i costi. Per questo sono arrivata alla Murgia con un po’ di ritardo e superando certe prevenzioni tutte mie. Ora sono felice di averla letta. Perché “Accabadora” è un bel romanzo. Perché lo ha scritto una giovane donna. Perché questa giovane donna è italiana. Perché rincuora sapere che in un mare di gente che vuole scrivere, c’è anche chi lo sa fare. La storia non è particolarmente complessa e questo, a mio umile avviso, è uno dei punti di forza del libro.

Siamo a Soreni, un piccolo paese sardo, negli anni ’50. Le persone vivono di lavori in campagna, mestieri umili e qualche pettegolezzo per vivacizzare le giornate. Maria è una bambina. È nata da un padre già morto, quarta di quattro sorelle e, proprio per questo, indesiderata e giudicata di troppo. Sua madre, Anna Teresa Listru, sceglie così di affidarla all’anziana sarta del paese, Tzia Bonaria Urrai. Maria diventa fill’è anima, una figlia d’anima. “È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra“.

Tzia Bonaria è una vedova, di quelle che un marito però non ce l’hanno mai avuto. Il suo promesso, Raffaele Zincu, è morto in guerra lasciandola in solitudine e costringendola a diventare vecchia fin da giovane. Tra la bambina e Bonaria i primi contatti sono intrisi di silenzio e fatti di nuovi spazi da misurare. La confidenza si costruisce con una quotidianità che le avvicina, di piccole attenzioni di una madre putativa nei confronti di una figlia non partorita. Ma ci sono delle notti in cui Tzia non è in casa. Maria domanda perché ma un “Torna in camera tua” è una risposta sufficiente ad ottenere ubbidienza.

Nasconde un mistero Bonaria, un segreto che tiene accuratamente sepolto nella sua anima. Tutti la circondano di un rispettoso riserbo in paese, ma per molto tempo Maria sarà la sola a non sapere il perché.

Gli eventi della vita e le parole rabbiose di Andría sbatteranno la verità in faccia a una Maria già cresciuta. La frattura tra la ragazza e Tzia Bonaria inizia in quello stesso istante. Il colloquio serrato tra le due non poteva lasciarle dubbi: “nella mente di Maria la verità si fece chiara improvvisamente, e nell’istante stesso in cui la realizzava, la figlia di Anna Teresa e Sisinno Listru seppe con certezza chi era la donna che le stava davanti. Aprì la bocca per ritualizzare lo sbalordimento in un’imprecazione, ma non le venne altro che un ansito da partoriente, il singhiozzo senza pianto di una bestia strozzata“.

La vecchia è un’accabadora, colei che accompagna le persone prossime alla morte. La parola accabadora (dallo spagnolo “accabar”: finire) arriva dal sardo accabare che significa letteralmente “mettere fine”. Nulla a che fare con la nozione di eutanasia che noi potremmo intendere. Infatti è la stessa scrittrice, in un’intervista audio, a chiarire che l’accabadora non è colei che pratica l’eutanasia, ma è colei che compie un pietoso atto di accompagnamento verso la morte, alla luce di una legittimità solida e collettivamente riconosciuta: “In quel contesto (di Soreni, NdR) non esiste il concetto di autodeterminazione: nessuno si fa da solo, nessuno da solo si disfa. Il concetto di autodeterminazione è invece alla base della nostra idea di eutanasia. Penso al testamento biologico che è l’atto estremo dell’autodeterminazione. In quel contesto sarebbe stato bestemmia. Diciamo che l’accabadora è la risposta collettiva, comunitaria a una domanda che noi oggi considereremmo esclusivamente personale, individuale“. Sono i parenti del moribondo, agonizzante e ormai privo di coscienza, a chiamare Tzia Bonaria. È uno di loro che Maria ha visto, nell’ombra di una notte, arrivare in casa per chiamare l’anziana sarta.

Ma “Accabadora” è soprattutto la storia di una madre e di una figlia. Un legame che, evidentemente, non deve passare per forza attraverso un cordone ombelicale e un parto. La Murgia parla, infatti, del senso di una maternità elettiva che non necessita di alcun legame di sangue: “Tu sei diventata mia figlia nel momento stesso in cui ti ho visto, e non sapevi ancora nemmeno chi ero“, spiega Bonaria a Maria. Due creature, lasciate sole dagli intrecci beffardi del destino, che si incontrano, si mescolano e si affezionano generando un legame che va oltre quello naturale.

La Murgia ha imparato a scrivere, per sua stessa ammissione, attraverso il web. Non è un demerito. E nella sua scrittura si ritrova tutta l’immediatezza, l’essenzialità e la sintesi che la Rete pretende. È per questo che mi piace. La riconosco e la sento vicina. Non perché sappia scrivere come lei, ci mancherebbe, ma perché apprezzo il suo narrare incisivo, concreto e convincente. Evidentemente aver avuto a che fare per qualche anno con un pubblico esigente e spietato come quello che frequenta Internet, ha raffinato la sua scrittura e perfezionato il suo talento. La leggerò ancora, senza dubbio.

Edizione esaminata e brevi note

Michela Murgia è nata a Cabras, in provincia di Oristano, nel 1972. Per ISBN, nel 2006, ha pubblicato “Il mondo deve sapere”, un diario tragicomico della sua esperienza lavorativa presso la Kirby a cui, l’anno seguente, Paolo Virzì si è ispirato per il film “Tutta la vita davanti”. La Murgia ha scritto e scrive per diversi magazine e riviste italiane. Nel 2007 ha scritto per l’antologia sull’identità sarda Cartas de Logu, curata da Giulio Angioni e edita dalla CUEC. Un anno più tardi arriva “Viaggio in Sardegna – undici percorsi nell’isola che non si vede” (Einaudi) e “Altre Madri” accolto nell’antologia “Questo terribile intricato mondo”. Il romanzo più celebrato è però “Accabadora” pubblicato nel 2009 e vincitore dei premi Dessì, SuperMondello, Alassio, Viadana, Città di Cuneo e SuperCampiello. Nel 2011 arriva ”Ave Mary. E la chiesa inventò la donna”, sempre per Einaudi.

Michela Murgia, “Accabadora”, Einaudi, Torino, 2011.