“Diario di una maestrina” è stato pubblicato per la prima volta nel 1957 da Laterza e ha rappresentato l’esordio letterario di Maria Giacobbe. Un libro in cui sono incappata per caso e che ritengo possa essere considerato un’autentica perla. Il “Diario” racconta uno spaccato di vita sarda e italiana degli anni quaranta e cinquanta, una lucida e mai patetica cronaca della quotidianità di un’insegnante elementare che, nata e cresciuta in una “buona famiglia” nuorese, è divenuta maestra quasi per darsi uno scopo e un’identità: “In seconda liceo mi ammalai e con sollievo lasciai la scuola. Due anni di noia e di malinconia. Mi dispiaceva esser “figlia di famiglia” e tentai di impiegarmi. Ma per una ragazza “della mia condizione sociale” non era facile cosa trovare lavoro. Non un lavoro manuale nella fabbrica di ceramica che andava sorgendo e che mi attirava molto: sarebbe stato indecoroso. Non un impiego perché non avevo titoli di studio validi ad ottenermene uno pari come importanza alla dignità del mio clan… Ma che cosa dunque? Di ritornare a scuola, al liceo, quando già le mie compagne erano all’università, non me la sentivo. Fra le ostilità dei familiari che giudicavano ciò un volontario declassarmi, diedi l’abilitazione magistrale e decisi di fare la maestra“.
Una decisione che conduce Maria a passare per la solita trafila della scuola italica: qualche breve supplenza prima e una posizione di ruolo qualche tempo più tardi. La Sardegna dei paesini che la maestrina incontra e conosce è molto diversa dalla Sardegna borghese e cittadina che è abituata a frequentare. La sua prima esperienza da insegnante elementare passa per una numerosa classe mista ospitata in un’aula con pavimento in terra battuta, con una finestra minuscola e delle assi sgangherate su cui siedono gli alunni. “I ragazzi non mancavano di intelligenza e di vivacità e, benché sfigurati dalla tigna, mi sembravano quasi belli: gli occhi accesi e vivaci, quelli che ancora non li avevano distrutti dal tracoma, e le bocche fresche anche se restie al sorriso“. All’inizio nessuno sembra fidarsi di una giovinetta che fa la supplente, la diffidenza si respira e si tocca con mano ma il coraggio di Maria, che ha la fortuna di non avere paura delle bisce, l’aiuta a conquistarsi la fiducia dei suoi primi allievi.
Il lavoro di maestra porta Maria a passare attraverso diverse aule e tante misere realtà di villaggio. Arriva a Oliena, un paesone a pochi chilometri da Nuoro. “Tutti aspirano a “possedere” e chi non eredita e non può comprare in contanti si rassegna a dissodare, irrigare, innestare per conto di altri e su terreni assolutamente vergini dei quali poi avrà la metà come ricompensa. Per quattro cinque anni la sua vita sarà grama anche se illuminata da una speranza. Poi si accorgerà che il podere così faticosamente acquistato è del tutto insufficiente ai bisogni, sia pure modestissimi, di un individuo e ricomincerà a lottare, da solo e con mezzi primitivi, contro la sua insaziata fame di terra. Tanto peggio poi se ci sono moglie e figli. Questi sinché son piccini possono anche campare di nulla, come gli uccelli; ma quando crescono, se riescono a crescere, il loro stomaco diventa un pozzo senza fondo. Allora bisogna che lascino la casa per cercare altrove il pane“. A Oliena la maestrina deve seguire alunni già grandi durante i corsi delle scuole serali, un’istituzione che consentiva a molti, anche nel periodo post fascista, di poter lavorare di giorno e imparare a leggere e a scrivere di sera. Sono persone forgiate dalla fatica nei campi e solitamente poco inclini a dare confidenza a una giovane donna venuta dalla città che pensa di saperne più di loro. “A scuola i miei alunni sono docili quanto si può pretendere da persone formatesi nella vita libera dei campi, ma se appena sospettano che posso sorridere della loro ignoranza diventano reticenti e scontrosi. Non amano parlare di sé e delle loro cose, soprattutto se ne sono sollecitati. Devo evitare con scrupolo di fare allusione alla loro inferiorità intellettuale e, per esempio, devo bandire dalle letture di classe una pagina del libro di testo nella quale è contenuto il termine “ignorante” che i miei suscettibili allievi credono sia stato scritto con l’unico preciso scopo di offenderli“.
“Diario di una maestrina” letto con gli occhi odierni diviene un documento storico, antropologico e biografico di enorme spessore. La Sardegna dei piccoli centri procede a bassissima velocità rispetto al Continente. La lingua è spesso un problema poiché i bambini che vanno a scuola non conoscono l’italiano e la maestra, da parte sua, non conosce perfettamente il dialetto di ogni paese in cui si trova a insegnare. Le famiglie sono sempre estremamente numerose, vivono grazie ai raccolti o al formaggio prodotto da pecore e capre. Le case sono piccole e le persone che le abitano condividono spesso lo spazio con gli animali che danno loro sostentamento. La normalità è fatta di scarsa igiene e delle malattie che ne derivano. La perenne mancanza di cibo, la povertà inevitabile e la nascita costante di figli sono le caratteristiche principali della società che Maria conosce muovendosi tra le scuole sarde. I bambini arrivano in classe sempre con gli stessi vestitini, spesso inadatti alla stagione e alla crescita di chi li indossa. Di scarpe nemmeno a parlarne. Bambini che non possono avere un’infanzia perché costretti a divenire adulti in fretta per poter accudire la famiglia quando i genitori sono nei campi o ad andare a servizio e guadagnarsi qualche lira. Elementi che creano perplessità e sofferenza alla stessa maestra perché sa che può fare poco o nulla per mutare abitudini e stili di vita vecchi di secoli e ormai divenuti la regola.
La maestrina, un diminutivo quasi svilente che poco si addice al ruolo che un’insegnante come Maria ha rivestito in quegli anni e in quei territori, diviene spesso una figura, insieme a quella del parroco o del sindaco o del medico, a cui le persone più semplici possono far riferimento. Maria apprende molto dagli allievi a cui insegna, impara soprattutto a misurare meglio i suoi giudizi e a smantellare luoghi comuni che non hanno ragione d’esistere. Andare a scuola è per molti alunni, bambini o adulti che siano, un evento straordinario ma, come spiega saggiamente la maestrina, “in questa scuola, forse per la prima volta, sentono di far parte di una società civile nella quale gli uomini si distinguono dalle bestie non solo perché un po’ meglio si sanno difendere dalle intemperie ma soprattutto per la capacità di capire e di esprimere l’essenza delle cose“. Come è evidente il cuore del diario è rappresentato dalle piccole storie quotidiane di povertà e umanità, di sofferenza e conflitto, di crescita e fallimento che la maestrina vive e osserva tra i banchi dei suoi alunni. Una cronaca, mai lacrimevole, trasmessa con uno sguardo attento e una scrittura luminosa e composta. Il racconto diviene denuncia ma rende memoria di una società di cui siamo per lo più figli o nipoti ma che, forse, pretendiamo scioccamente di dimenticare o cancellare in fretta e senza rimorsi.
Edizione esaminata e brevi note
Maria Giacobbe è nata a Nuoro nel 1928. Dal 1957 vive in Danimarca, partecipando attivamente alla vita intellettuale del suo paese d’adozione. Il 1957 è anche l’anno del suo esordio letterario Diario di una maestrina (Laterza 1957; Il Maestrale 2003, 2006; Premio Viareggio e Palma d’Oro dell’Unione Donne Italiane); collabora al «Mondo» di Pannunzio (1956-1963). Segue una prolifica attività di scrittura narrativa, saggistica e giornalistica in italiano, danese, francese, spagnolo, accompagnata da lavori di traduzione e curatela (Poesia moderna danese/Moderne dansk poesi 1971; Premio Dante Alighieri dell’Università di Copenaghen). Ha fatto parte della delegazione danese UNESCO in diversi incontri internazionali (Svezia, Norvegia, Conferenza Generale di Parigi nel 1989). Per motivi inerenti alla sua professione ha visitato la maggior parte dei paesi europei e fatto viaggi in Asia, Africa, Medio Oriente, America Centrale, Canada e USA, partecipando a incontri culturali internazionali. Le sue opere di narrativa edite da Il Maestrale sono: Il mare (1997, 2001); Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia (1999); Scenari d’esilio (2003); Gli arcipelaghi (1995, 2001; Premio Speciale della Giuria Giuseppe Dessí; dal romanzo è tratto l’omonimo film di Giovanni Columbu); Le radici (2005); Pòju Luàdu (2005); Chiamalo pure amore (2008); Euridice (2011); Memorie della farfalla (2014).
Maria Giacobbe, “Diario di una maestrina“, Il Maestrale, Nuoro, 2003.
Pagine Internet su Maria Giacobbe: Wikipedia / Topi pittori / Dol’s Magazine
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