Travaglio Marco

La scomparsa dei fatti

Pubblicato il: 19 Gennaio 2007

“I fatti separati dalle opinioni. Era il motto del mitico Panorama di Lamberto Sechi, inventore di grandi giornali e grandi giornalisti. Poi, col tempo, quel motto è caduto in prescrizione, soppiantato da un altro decisamente più pratico: “Niente fatti, solo opinioni”. I primi non devono disturbare le seconde. Senza fatti, si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Con i fatti, no” (pag. 1). “Oggi sono spesso le opinioni a trasformarsi in fatti”.

Già l’incipit dalla premessa al libro ci fa capire dove Travaglio andrà a parare: “La scomparsa dei fatti” è un’ampia parafrasi di queste prime righe, ricca di esempi noti e meno noti tratti dalla cronaca recente, a partire proprio da Tangentopoli, dal suo studiato revisionismo ad opera dei riciclati e dei loro zelanti maggiordomi, fino ad approdare all’influenza dei polli (“Di che abbiamo parlato per mesi e mesi? E soprattutto: chi sono i polli?). Un contesto in cui il nobile mestiere di giornalista pare avere perso la sua originaria funzione (informare il lettore di fatti accertati, non inventati e su questa base dare poi la propria personale e legittima interpretazione) per ridursi ad un servizio, nella migliore delle ipotesi più affine allo sceneggiatore di fiction, nella peggiore all’apprendista cameriere.
Spero mi perdonerete questa ampia “casistica” tratta dalla premessa, peraltro facilmente rintracciabile in rete ancor più completa, e di cui poi nel libro troveremo passo passo esempi a dir poco demoralizzanti:
“C’è chi nasconde i fatti perché non li conosce, è ignorante, impreparato, sciatto e non ha voglia di studiare, di informarsi, di aggiornarsi.
C’è chi nasconde i fatti perché trovare le notizie costa fatica e si rischia persino di sudare.
C’è chi nasconde i fatti perché non vuole rogne e tira a campare galleggiando, barcamenandosi, slalomando.
C’è chi nasconde i fatti perché ha paura delle querele, delle cause civili, delle richieste di risarcimento miliardarie, che mettono a rischio lo stipendio e attirano i fulmini dell’editore stufo di pagare gli avvocati per qualche rompicoglioni in redazione.
C’è chi nasconde i fatti perché si sente embedded, fa il tifo per un partito o una coalizione, non vuole disturbare il manovratore.
C’è chi nasconde i fatti perché se no lo attaccano e lui vuole vivere in pace.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, puttane e cardinali, principi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno.
C’è chi nasconde i fatti perché confonde l’equidistanza con l’equivicinanza.
C’è chi nasconde i fatti perché contraddicono la linea del giornale.
C’è chi nasconde i fatti perché l’editore preferisce così.
C’è chi nasconde i fatti perché aspetta la promozione.
C’è chi nasconde i fatti perché fra poco ci sono le elezioni.
C’è chi nasconde i fatti perché quelli che li raccontano se la passano male.
C’è chi nasconde i fatti perché certe cose non si possono dire.
C’è chi nasconde i fatti perché hai visto che fine han fatto Biagi e Santoro.
C’è chi nasconde i fatti perché è politicamente scorretto affondare le mani nella melma, si rischia di spettinarsi e di guastarsi l’abbronzatura, molto meglio attenersi al politically correct.
C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti diventa inaffidabile e incontrollabile e non lo invitano più in televisione.
C’è chi nasconde i fatti perché fa più fine così: si passa per anticonformisti, si viene citati, si crea il “dibattito”.. (……..).
C’è chi nasconde i fatti perché così, poi, magari, ci scappa una consulenza col governo o con la Rai o con la Regione o con il Comune o con la Provincia o con la Camera di commercio o con l’Unione industriali o col sindacato o con la banca dietro l’angolo.
C’è chi nasconde i fatti perché è nato servo e, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi”.
Un campionario di interviste in ginocchio, o meglio pseudo-interviste, di inchieste non inchieste, decisamente devastante sia per gli artefici di questi fulgidi esempi di giornalismo (?) pataccaro, sia per gli ascoltatori-lettori, non si sa bene se più inconsapevoli o più anestetizzati: è un libro costellato di perfidie (” Il segreto, dunque, non è mentire un po’. Il segreto è mentire sempre, spudoratamente, ventiquattr’ore su ventiquattro. Le bugie, in quest’Italia, sono come i debiti: chi ne fa pochi è rovinato, chi ne fa tanti è salvo”) ma soprattutto un ampio panorama di fatti accertati, tratti da atti giudiziari e processuali, ma ignoti ai più, del tutto oscurati dalle successive, od anche preventive, interpretazioni disinvolte (meglio denominate manipolazioni e mistificazioni della realtà).
Bisogna dare atto a Travaglio che la sua serena ed inesorabile cattiveria non conosce limiti di sorta: la sua assoluta mancanza di remore nello sbugiardare le panzane imbastite dai partigiani e dagli scherani di destra, centro, sinistra, rendono “La scomparsa dei fatti” sicuramente poco digeribile sia per la categoria dei lettori ideologicamente schierati, sia per tanti suoi colleghi (a memoria tra gli ultimi schiumanti ci sono Sergio Staino e Oscar Giannino, personaggi arrampicati su opposte barricate, come del resto si conviene nei confronti di un giornalista di destra, allievo del vecchio Cilindro, e che – paradossi dell’Era berlusconiana – ora scrive per l’Unità, pur tra gli strali dei suoi colleghi); da un lato – inutile ripeterlo – potrebbe irritare, e non poco, coloro che sono stati ammaliati dalla recente immissione nelle Istituzioni di atteggiamenti, e soprattutto interessi, aziendalistici; dall’altro coloro che potevano sperare in un pamphlet ad uso di una sinistra moralmente immacolata e biologicamente aliena da ogni magagna.
Chi poteva avere questa pia illusione evidentemente non conosce Travaglio, la persona meno indulgente che possa varcare la soglia di una redazione.
Eloquenti i titoli dei capitoli:
1. L’arte del parlar d’altro 33
2. Senti questo, senti quello 56
3. Tangentopoli senza tangenti 76
4. Armi di distrazione di massa 115
5. Il giornalismo dei polli 145
6. Premiato Bufalificio Italia 160
7. La matematica è un’opinione 210
8. Le notizie col preservativo 229
9. Giornalismo transgenico 249
Post Scriptum 299.
Ma andando più nel dettaglio, tra paragrafi con titoli altrettanto eloquenti, vicende passate per lo più sotto silenzio, eccellenti assist per le doverose perfidie di ogni giornalista che si rispetti, ovvero che voglia raccontare e distinguere i fatti nudi e crudi dalla propria opinione su di essi, è probabile che qualche lettore più accanito e con la memoria meno anestetizzata, possa ricordare qualche vecchia e nuova bufala montata ad arte e spacciata per verità incontrovertibile, tipo la voluta assimilazione dell’istituto della prescrizione con l’assoluzione (dopo l’esplosione di casi eclatanti le smentite non fanno notizia, e difatti vengono divulgate a pochi intimi).

Una piccola antologia. Da “L’industria della paura”: ” Il primo allarme antipollo scatta in tutta Europa il 13 settembre 2005 in una conferenza che si tiene a Malta. … Nessuno fa caso a un particolare, sottolineato da Report: la conferenza è sponsorizzata dalle case farmaceutiche Roche (che produce il Tamiflu), Aventis Pasteur e Baxter (che producono vaccini)” (pag. 151).
Da “L’orchestra nera”: “Su Mani pulite se ne sono raccontate di tutti i colori. Si è detto che tutto è finito nel nulla, che tutti sono stati assolti: in realtà, per la sola inchiesta di Milano, i condannati definitivi (compresi i patteggiamenti) sono stati 1.200, mentre altrettanti si sono salvati grazie alla prescrizione e ad una miriade di leggi a favore, e solo il 14 per cento ha avuto l’assoluzione. … Si è detto che i comunisti sono stati risparmiati, mentre i primi politici d.o.c. arrestati nel 1992 per Mani pulite erano due comunisti, Epifanio Li Calzi e Sergio Soave, ed i vertici del PCI-PDS milanese furono letteralmente rasi al suolo da arresti, avvisi di garanzia e molti tra patteggiamenti e condanne. Per non parlare delle cooperative rosse” (pag. 163).
Da “Come nasce una bufala: il cimicione”: ” ….Lo sdegno è insomma unanime. Qualche settimana più tardi, nel silenzio generale, la procura di Roma appurerà che la microspia era un ferrovecchio inservibile da anni. E che, a piazzarla in casa Berlusconi, non era stata una Procura deviata, ma un amico del capo della sicurezza di Berlusconi, incaricato di bonificare la residenza romana del Cavaliere” (pag. 174).

Da “Tangentopoli senza tangenti”: “Giovanardi confonde volutamente gli assolti con i prescritti….se un intoccabile viene indagato, non deve essere processato; se poi, per disgrazia, viene processato, non deve essere condannato: se poi per somma sventura, viene condannato, o comunque dichiarato colpevole, nessuno lo deve sapere” (pag. 111-113); “Gli schieramenti politici ufficiali – scriverà il tribunale di Venezia – sono del tutto irrilevanti, nel senso che i partiti di governo ed opposizione, mentre si battono accanitamente in Parlamento, collaborano tranquillamente nello spartirsi tangenti” (nel capitolo seguiranno le mirabolanti imprese di Mario Chiesa, Alfredo Vito, mister centomila preferenze, poi deputato F.I., di Gianni De Michelis, di Cirino Pomicino, dei conti ad uso privato di Bettino Craxi e altri eroi già riabilitati o in fase di santificazione). In “Intervista senza domande” e in “Embedded forever” oggetto delle attenzioni sono Bruno Vespa (“nelle sue trasmissioni, riesce a eludere le notizie invise ai potenti con puntate di puro intrattenimento”), tempestivo nel proporre al pubblico televisivo la vicenda di Cogne proprio quando viene condannato per mafia Calogero Mannino (altre note di tempestività a pag. 33-34), e Stefano Censurati, le cui affermazioni dovrebbero diventare Vangelo per gli aspiranti giornalisti (o aspiranti maggiordomi, secondo altra corrente di pensiero): “Il giornalista deve mettere il politico a proprio agio. Che è il giornalista per contestare quello che il politico dice?

Chi è lui per contestargli le cifre?”. In “Come nasce una bufala, il caso Lombardini”: qui un’intercettazione a dir poco oscena tra Nicky Grauso e Paolo Liguori. Esilarante la vicenda di Igor Marini, “conte polacco” e scaricatore di casse al mercato ortofrutticolo di Brescia, ma sopratutto supertestimone e asso nella manica di Trantino nella vicenda Telekom Serbia (poco prima avevamo avuto delle “anticipazioni” a riguardo col sedicente dottor Favaro, alias Zagami).

Pochi coloro che ricevono qualche lode (tra questi, senza troppo eccedere, Pansa), tanti coloro che sono oggetto dei suoi strali. Alcuni nomi più o meno eccellenti: Adriano Sofri (“pontifica su tutto lo scibile umano dall’alto della sua autorità morale di condannato definitivo come mandante del delitto Calabresi”), appartenente a quella lobby trasversale di ex “lottacontinuisti”, a suo dire in perfetta simbiosi con i “berluscones” (tra le sottocategorie i ciellini come Farina-Betulla), in sintonia sull’indulto e sulle battaglie per l’impunità dei corrotti, “ma entrambi allergici ai fatti nudi e crudi e a chi li racconta senza remore di parte”, la famiglia Angela (n.d.r.: era ora), Angelo Panebianco, Cesara Buonamici e via demoralizzandoci.

Travaglio in qualche modo risponde alle perplessità di tanti (io fra questi) sui cosiddetti girotondi ed annessi e connessi; perplessità, se non contrarietà su certo approccio “aggressivo”, non fosse altro che, vuoi perché in Italia il vittimismo paga, foraggiato sempre da una informazione che non è tale, ma solo un suo surrogato fasullo, vuoi perché spesso e volentieri i più accaniti moralisti dimostrano essere più che altro dei partigiani che si dileguano quando si tratta di contestare i comportamenti dei propri referenti politici, il rischio di autogol e di incoerenza è sempre in agguato: “Sono i frutti di un bipolarismo insano e malato. Così facendo appiattisce tutto sull’asse destra-sinistra e nega in radice la possibilità che esista qualcuno che si muova su altri assi: per esempio, i giudici sull’asse legalità-illegalità e i giornalisti sull’asse vero-falso (pag. 20)”.
Meno convincenti le considerazioni, pur tra le righe di fatti accertati, quando si tocca un tema esplosivo (nel vero senso della parola) dell’integralismo jaidista nel nostro paese: anche a voler soprassedere alle poche righe dedicate ad un magistrato, assurto alla ribalta non solo per i suoi provvedimenti giudiziari, ma piuttosto per la sua loquacità, iniziative e conoscenze quanto meno discutibili, sembra cogliersi, anche se forse è un’impressione che non risponde alla realtà, la sottovalutazione di un fenomeno che si alimenta proprio grazie al garantismo occidentale, e che comunque appare in contraddizione con la recentissima sentenza della Cassazione (1072)  inerente il caso, con l’impostazione “law and order” del pamphlet, con le frequenti citazioni (una volta tanto in positivo) del valente e stimato collega del Corriere, Guido Olimpio, esperto di terrorismo mediorientale.

Forse è il caso di precisare ancora una volta che l’autore non è personaggio facilmente inquadrabile tra i partigiani di quello o di quell’altro: questo libro dovrebbe averlo chiarito. E’ vero che Travaglio, nonostante una formazione professionale presso un giornale di destra come il Giornale montanelliano ed una cultura politica in linea con i suoi esordi, adesso scrive perlopiù in giornali e periodici schierati a sinistra, ma in una posizione sui generis, probabilmente più per necessità, per una scelta del meno peggio che per intima convinzione. Lui stesso ha più volte detto che, malgrado si sia più volte accompagnato nelle sue iniziative “giustizialiste” con esponenti storici della sinistra, con certa cultura non ha nulla a che fare. Ma non solo: ad esempio il suo essere filo-israeliano, la sua stima per la destra di De Villepin, per forza di cose non lo rende assimilabile a tanti suoi fans, forse poco informati (posizioni tali da scontentare probabilmente un po’ tutti, da destra, sinistra e centro); non fosse altro che le sue battaglie di verità non si sono certo fermate quando ad inciuciare, a tirare bidoni e ad avere imbarazzanti liason erano e sono esponenti dell’attuale maggioranza.

Alcune sue recenti dichiarazioni (poco tenere anche verso quella politica estera gradita alla parte più radicale della sinistra): “Non ho spazio a sufficienza per elencare compiutamente le ragioni del mio disgusto sui primi mesi della maggioranza: indulto extra-large, legge-brodino sull’antitrust televisiva, legge vergogna sul (anzi in favore del) conflitto d’interessi, inciucio per mandare in vigore la controriforma Castelli sull’ordinamento giudiziario, inciucio in commissione Antimafia per respingere la proposta di escludere gli inquisiti e i condannati per mafia, nessuna legge vergogna cancellata, minuetti per rinviare sine die la cacciata da Montecitorio del pregiudicato interdetto Previti, voti quasi unanimi per salvare i forzisti Simeoni e Fitto dall’arresto, calma piatta alla Rai con la conferma del cda petruccioliano e il mancato reintegro di tutti gli epurati tranne uno (Santoro, imposto dai tribunali a una dirigenza recalcitrante), D’Alema a braccetto con Hizbullah, Prodi che stringe la mano ad Ahmadi-Nejad, le pantomime della finanziaria più pazza del mondo e così via….Se le stesse cose che ho appena elencato le avesse fatte Berlusconi, saremmo già scesi in piazza non una, ma dieci volte. Le ha fatte l’Unione in joint venture con Berlusconi, e allora in molti è scattata la doppia morale di chi è sempre pronto a perdonare la propria parte. Ma una società civile matura non ha una parte prestabilita. Non dobbiamo averla noi giornalisti, devono imparare a non averla gli elettori. Ci si può schierare, al massimo, il giorno delle elezioni, quando si deve decidere per chi o contro chi votare. Per il resto della legislatura, mani (e menti) libere” (da Micromega del 10/2006).
Dalle nostre parti c’è un detto che suona pressappoco così: “né per scherzo né per burla intorno ai’ culo ‘un ci voglio nulla”.

Una metafora che vuole significare non solo il disagio nell’essere avvicinati da birilloni di ciccia, ma anche la repulsione verso i dispensatori di bufale, comunque intenti ad operare dietro le nostre spalle.

Ecco, dopo la lettura di “La scomparsa dei fatti”, libro documentatissimo, avaro di inutili divagazioni, ottimo per rinfrescare quella memoria a breve termine che è tipica dell’italiano indulgente con sé stesso e con gli altri, la sensazione che ci sia entrato da qualche parte un corpo estraneo effettivamente viene.

Sconfortante ed indispensabile.

“Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto” (dalla terza di copertina)

Una citazione da scolpire nella pietra: “Io sono cattolico, Pollari è cattolico, mi spiacerebbe un cattolico facesse cose brutte” (Renato Farina, alias “agente Betulla” – pag. 264)

Edizione esaminata e brevi note

Marco Travaglio ha scritto sul Giornale, La Voce, adesso scrive su Repubblica, l’Unità e Micromega (“oggi la vera divisione tra i giornalisti non è fra destra e sinistra ma “fra schiene dritte e schiene curve, o quantomeno flessibili”). Tra le sue opere, Bananas (Garzanti, 2003), Montanelli e il Cavaliere (Garzanti, 2004), Berluscomiche (Garzanti, 2005). Con Saverio Lodato, Intoccabili (Bur, 2005). Con Peter Gomez, Regime (Bur 2004), Inciucio (Bur, 2005), Le mille balle blu (Bur, 2005) e Onorevoli Wanted (Editori Riuniti, 2006).

Marco Travaglio – La scomparsa dei fatti – Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, Il Saggiatore, Collana Infrarossi (ed. novembre 2006), pagg. 320, euro 15,00

Recensione pubblicata su ciao.it il 29 dicembre 2006, in parte modificata ed aggiornata per lankelot.ue

Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2007