Angelini Sut Adriano

Roma, Battisti, il Diavolo e la Pandemia – Intervista ad Adriano Angelini Sut

Pubblicato il: 9 Aprile 2021

Autore poliedrico, letterato versatile e grande appassionato di musica, Adriano Angelini Sut ci ha regalato fino ad oggi libri davvero originali, opere lontane dalla banalità e dalle mode del momento, che ci parlano di Storia e memoria, ma anche di scottante attualità. Tematiche affrontate in modo assai scorrevole e sempre ben documentato, sviluppate perlopiù in forma narrativa. Chi vi parla si è imbattuto nella sua letteratura relativamente di recente, ancorché avesse già sentito circolare il suo nome da qualche anno. Avvicinarsi alle sue pagine, al suo mondo, ai suoi personaggi, è stata davvero una sorta di epifania – una di quelle che capitano raramente. Che ti riconciliano col tempo ingrato che stiamo vivendo. E per questo lo ringrazio pubblicamente. Intervistarlo per Lankenauta è, dunque, il minimo che possa fare per sdebitarmi. Convinto del fatto che ne abbia di cose da dire, che possano interessare anche voi.

Allora, Adriano, partirei subito con l’ultima tua opera di narrativa, Imago Lux. È un romanzo complesso e sfaccettato, ma scorrevole e aderente a un genere ben riconoscibile, che innesta abilmente al suo interno cocenti riflessioni sull’attualità. Cosa ti ha spinto, dopo aver pubblicato opere tra loro assai differenti, a cimentarti nel thriller-horror?

Non lo so, io vado a urgenze interiori. Quando ho iniziato, a settembre del 2019 (periodo pre-pandemia) sentivo la necessità di dover dire qualcosa che mi ribolliva dentro; avvertivo un pericolo, non so spiegartelo. Era come se l’umanità non fosse consapevole dei rischi che stesse correndo, da un bel po’ di tempo direi. Non sto parlando dei, secondo me, discutibili rischi legati al riscaldamento globale (in cui non credo), del sovrappopolamento (in cui invece crede Bill Gates), dell’inquinamento (in cui credono gli anti-capitalisti irriducibili) o dello sfruttamento delle risorse (in cui credono sia i capitalisti sia i comunisti cinesi), sto parlando di un rischio per le anime. Lo so che è un concetto che fa storcere la bocca a molti ma per me è così. C’era qualcosa che ormai si stava manifestando e stava minacciando la nostra incolumità, mentale e psicologica e spirituale in primis, e io dovevo raccontarlo.

Satanismo e pandemia: cosa lega, nel tuo immaginario, e di conseguenza nell’economia del romanzo, queste due tematiche? Fa ancora presa, sulle nuove generazioni, parlare del Principe delle Tenebre?

Appunto. Per raccontare questa sensazione di pericolo che avvertivo non c’era altra strada che scegliere l’horror. E soprattutto rifarsi a un genere, quello degli anni ’70, che ha sfornato cinematograficamente e letterariamente dei capolavori senza tempo. Non si tratta solo del Principe delle Tenebre che fa presa sulle nuove generazioni, a patto che lo si dipinga per quello che è e non con ammiccamenti glamour tipo la serie Tv Lucifer che va in onda su quella piattaforma insopportabile (per via del suo fastidiosissimo politicamente corretto) che è Netflix. Si tratta di un sussulto spirituale; il pericolo che avvertivo era: lui vuole entrare dentro di noi e possederci; noi dobbiamo dire di no. Te lo giuro, come tutto il resto del mondo, non avevo idea che poi sarebbe scoppiata la pandemia (col virus che ci entra dentro e pure quelli che vogliono farci il vaccino). Il romanzo è stato portato a termine a dicembre 2019, l’ho scritto in nemmeno tre mesi e l’ho corretto nell’estate del 2020 su suggerimento del mio editor affinché culminasse, nella terza parte, in piena pandemia. La correlazione fra possessione demoniaca, pericolo invisibile che sta là fuori e virus invisibile che può colpirci a caso e che vaga nell’aria come, appunto, un demone, è totalmente non pensata. Questo è il motivo per cui credo che il romanzo stia piacendo moltissimo, almeno dalle recensioni ricevute e dai feedback dei lettori; perché il collegamento è venuto naturalmente e perché la storia sembra rappresentare una sorta di chiamata alle armi che mi è arrivata dall’inconscio. O da chissà dove. Ed esattamente nel periodo in cui questo pericolo che avvertivo si è, di lì a poco, fatto concreto.

La tua precedente opera di narrativa, L’ultimo singolo di Lucio Battisti, è un grande affresco corale che è stato anche selezionato per lo Strega. Intanto spiegaci questo omaggio, sin dal titolo, per l’artista di Poggio Bustone.

Volevo raccontare Roma a modo mio e volevo farlo con una colonna sonora. Non è solo il fatto che reputo Battisti il più grande. Potevo raccontarla con Venditti o De Gregori, che negli anni ’70 hanno sfornato capolavori assoluti, due su tutti, Lilly e Rimmel. Lucio però aveva una marcia in più, perché prima di tutto era meno inflazionato a livello letterario, poi perché nell’economia dei personaggi che si muovono nel romanzo era perfetto. E poi anche lì, qualcosa a livello interiore mi ha detto di fare così. Credimi, io non scrivo mai se non ho una chiamata interiore. Non mi interessa raccontare i temi del momento o i personaggi che fanno vendere (Jacqueline Kennedy nel 2015 era – e ancora è – tutt’altro che un personaggio conosciuto dalle nuove generazioni). Se scrivo è perché mi si è accesa quella spia del profondo. Altrimenti non riesco. Non potrei mai accettare un contratto con un editore che mi costringa a scrivere un tot numero di libri in determinati anni. Lo rifiuterei anche se mi coprisse d’oro.

Il romanzo è ambientato a Roma, e abbraccia circa 50 anni di storia, dall’immediato dopoguerra fino alle soglie del nuovo millennio. Lo scenario scelto ritorna anche in Imago Lux, pur spostando l’asse temporale di quasi 20 anni. Si percepisce, in ambedue le opere, questo sentimento di odio-amore verso la città che ti ha dato i natali. Vuoi spiegarci più diffusamente il perché? 

È molto semplice. Perché quando l’ho vissuta da ragazzino e da adolescente era una città magnifica, aperta, espansiva, solare, cialtrona, non borghese, compagnona, sicura nonostante gli ultimi scampoli del terrorismo degli opposti estremismi; sì, era una città sicura, potevi stare in giro fino alle due di notte, anche le ragazze, e non ti sarebbe successo nulla a meno che non te l’andavi a cercare. Era una città dove potevi fare tutto. Dove i colori, gli odori, le sensazioni e le vibrazioni erano inarrivabili. Inspiegabili. Bastava guardare il tramonto sul Tevere, o prendere un gelato a piazza delle Muse ai Parioli, o farsi una canna in borgata per provare un moto di, quasi, onnipotenza. Dal 2000 in poi (non a caso il mio romanzo si chiude nel 1998 con la morte di Battisti), c’è stata una corsa verso lo sprofondo. Paradossalmente, è iniziato tutto con lo scudetto di Francesco Totti & compagni. È come se da quel momento qualcuno c’avesse lanciato una maledizione e fossimo precipitati nel gorgo più infimo dell’esistenza. Oggi la città è irriconoscibile, sporca, violenta davvero (perché è violenta nell’animo), cinica, insolente, pestifera. Il Movimento 5 stelle, questa sciagura che si è abbattuta sull’Italia per colpa di quell’inquietante personaggio che è Beppe Grillo e quegli oscuri signori della Casaleggio, ha rappresentato il colpo di grazia. Prima ci libereremo di questa qui che governa Roma e prima, forse, proveremo a rinascere.

Un punto di forza evidente, ne L’ultimo singolo di Lucio Battisti, è la costruzione dei personaggi. Sono tutti ben definiti e fortemente caratterizzati. Sono rimasto letteralmente folgorato da come sei riuscito a sviluppare l’amicizia tra Romano e Natale. Vuoi parlarci di loro? Raccontarci qualche curiosità, e rivelarci se, anche solo vagamente, Natale sia il tuo alter ego all’interno del romanzo.

Azz, come hai fatto a capirlo? Faccina sorridente 🙂 Sì, Natale è molto simile a ciò che sono e/o che sarei voluto essere. Romano invece è uno di quei ragazzi che ho conosciuto in adolescenza, ultimi martiri di una destra eversiva che si stava ‘normalizzando’. Il connubio anche lì è venuto naturalmente. Una chimica perfetta senza preconcetti. Quando lasci che sia il flusso vitale delle cose a menare le danze e non l’intelletto indagatore e separatore e censore tutto scorre in un modo magico. E poi, anche lì ci sono degli elementi autobiografici, che mi hanno aiutato a cogliere il nocciolo di dinamiche umane che spesso degli schemi se ne fregano. Una fra tutte, le vecchie comitive romane che ho frequentato in diversi punti della città; comitive interclassiste dove trovavi il borgataro e il pariolino di destra o il piccolo borghese di sinistra, o, nella maggior parte dei casi, quelli come me: che pensavano solo a divertirsi, alla musica, allo sport e della politica non si curavano affatto (bei tempi!)

E veniamo al tema indubbiamente più difficile da trattare, che sviluppi con una naturalezza sorprendente. In mondo anticonvenzionale e de-ideologizzato. E ciò ti rende veramente merito, al di là di ciò che può aver pensato leggendo il romanzo qualche ottuso giurato dello Strega. Mi riferisco al riuscire a far coesistere all’interno della narrazione due culture, quella ebraica e quella fascista, percepite da tutti, per evidenti motivi, come antitetiche. Ho scritto che il tuo approccio è stato da puro antropologo, vuoi dirci qualcosa di più in merito?  

Premessa. I giurati dello Strega non hanno letto il mio romanzo. La Mazzucco, durante l’elencazione delle tematiche che avevano caratterizzato i 40 libri presenti quell’anno, il 2018, il mio romanzo non lo ha mai citato. Lo Strega è finto come il Festival di Sanremo. È un mercimonio fra case editrici, grandi case editrici. A mala pena leggono quelli della dozzina. Io quel premio l’ho vinto moralmente; lo so che quell’anno il mio romanzo era il migliore, che non avevo rivali visto il livello indecente della narrativa italiana contemporanea. Ma purtroppo è andata così. Se dovesse cambiare la composizione dei membri della Fondazione Bellonci forse un giorno potrei tornare a gareggiarci. Ma veniamo al nocciolo. Conosco, in parte, le dinamiche ebraiche perché le ho vissute in famiglia, l’ebraismo ce l’ho in casa, anche se indirettamente. Poi ho avuto un grande sostegno, quello del professor Piero Di Nepi che mi ha aiutato a inquadrare quegli aspetti più specifici della cultura ebraica. Ho tentato di avvicinare le due realtà perché era tempo che accadesse. Perché dopo tanto orrore e dopo tanto rancore forse era ed è il momento di parlarsi. L’anticonvenzionalismo in fondo è provare a dire cose normali, di buon senso, cose che si sono perse nei meandri di un mondo incattivito dalla bontà pelosa e forzata, sancita a norma di legge in questo nuovo stato etico che la cultura progressista sta tentando di imporre. Ebraismo e fascismo possono parlarsi. In fondo anche Comunisti ed ebrei possono farlo. Purtroppo però l’unico attentato terroristico nel dopoguerra contro la comunità ebraica è stato compiuto a Roma, dai compagni, dalle Brigate Rosse OLP che hanno ucciso Stefano Gai Taché davanti alla Sinagoga. Però, e lo dico con molto rammarico ma senza risentimento, nemmeno la comunità ebraica ha letto il mio libro. In fondo anche loro sono come tutte le comunità di questo paese; conventicole chiuse e diffidenti. Peccato, e pazienza. Spero che un giorno qualcuno di loro lo faccia perché mi piacerebbe sapere cosa ne pensano. Io, da laico, da non ebreo, e da ‘sionista’ convinto, mi confronterei con una cultura, quella ebraica, che amo e reputo base fondante della nostra civiltà.

In questo percorso a ritroso che ti sto proponendo, arriviamo a parlare delle due biografie che hai pubblicato precedentemente a Imago Lux e L’ultimo singolo di Battisti. Quali suggestioni ti hanno spinto ad indagare le vite di Jacqueline Kennedy e Mary Shelley? E cosa lega, nel tuo immaginario, due figure femminili così apparentemente diverse?

Siamo di nuovo alla chiamata. I Kennedy e gli Shelley sono personaggi storici che mi hanno ossessionato fin da ragazzino. Ho portato Shelley e Keats alla maturità, ho trangugiato le poesie di Percy e considero Frankenstein un miracolo, una epifania per l’umanità. Anticipatore di tutto ciò che sta avvenendo (dall’utero in affitto, scusa la sintesi un po’ rozza, alla fecondazione in vitro alla clonazione ecc). I Kennedy poi… la scena di John che viene ucciso a Dallas è rimasta nel mio inconscio fin quando non l’ho buttata giù sulle pagine di Jackie. Ci sono momenti epici nella storia umana. I libri che ho scritto probabilmente sono lì a cercare di cristallizzarli, dar loro una forma, una spiegazione. Non credo che chi vive il presente sappia o possa leggere tutto ciò che avviene attorno a sé. La Storia, per come la vedo io, è per sua natura complottista. Accade tutto, e sempre, alle nostre spalle anche se poi scoprissimo che il complotto non esiste. C’è un legame, un Fil Rouge fra Mary Shelley e Jackie; tramite il punto di vista femminile ho potuto raccontare gli Shelley e i Kennedy e quei periodi storici e dar loro un taglio, una prospettiva nuova. A giudicare da come sono stati recepiti i libri, ci sono riuscito. Con Mary ero avvantaggiato, nessun autore italiano l’aveva mai raccontata (scandalo!), con Jackie ho rischiato; i Kennedy sono stati saccheggiati da cinema e letteratura in tutti i modi possibili e avevo di fronte capolavori senza tempo come American Tabloid e Sei Pezzi da Mille di James Ellroy. Ma a me piacciono le sfide che puntano molto in alto.

Andando ancora a ritroso troviamo Da soli in mezzo al campo e Le giornate bianche, due opere di narrativa edite da Azimut che hanno avuto buone recensioni quando uscirono, ma che adesso sono fuori catalogo. Verranno ristampate dal tuo nuovo editore? E soprattutto, Ensemble ripubblicherà anche L’ultimo singolo, viste le vicissitudini che riguardano Gaffi?

I primi due sono libri giovanili, diciamo, di formazione. Furono ben accolti, mi permisero di scrivere i due 101 che ho pubblicato con la Newton. Ma la Newton quando si è accorta che sapevo scrivere mi ha liquidato in fretta e furia. In fondo, li capisco, i loro editor non avrebbero potuto impormi di scrivere romanzetti standard e senza anima come quelli che pubblicano, con un linguaggio talmente sciatto e infantile da far invidia agli Harmony. Sulle ristampe non so che dire, con Ensemble stiamo valutando ma al momento hanno già fatto tantissimo e non mi sento di insistere. Di Gaffi non parlo per evitare polemiche inutili. Dico solo che ha chiuso da un giorno all’altro, spostando tutta la produzione sulla Italo Svevo; legittimo, ma non rinnovarmi il contratto per Jackie che, a detta loro, è stato il romanzo che ha venduto di più… I misteri dell’editoria (quella romana, poi! Solo su quest’ultima ci sarebbe da scrivere un trattato antropologico sociologico e psicologico). Tengo però a precisare che Le Giornate Bianche è disponibile su Amazon in versione ebook, i proventi vanno a me perché l’ho riproposto in self-publishing, una parola che fa orrore al mainstream editorial-progressista e che invece sarebbe utile al mio scarno conto in banca.

Visto il tuo attivismo sui social, è inevitabile anche una domanda sull’attualità. Sei molto critico, per usare un eufemismo, sulla gestione della pandemia in Italia. Vuoi dirci cosa, a tuo parere, non ha funzionato e dove rilevi le maggiori responsabilità?

Durante questo periodo ho avuto la fortuna di vivere in Svezia per tre mesi. La gestione della pandemia andava fatta come ha fatto il governo socialdemocratico svedese. Loro hanno quel grandissimo virologo che è Anders Tegnell, che ha curato Ebola in Africa, noi abbiamo avuto i medici del CTS più incompetenti del panorama internazionale (a detta delle pubblicazioni che hanno fatto, e riportate in vari articoli di giornale, non mia). Il lockdown non solo non è servito a nulla ma è stato un disastro socio-economico di proporzioni inimmaginabili. Abbiamo avuto il peggior ministro della Salute, laureato (ohibò!) in Scienze Politiche, membro di un partito, Leu, che ancora rimpiange il comunismo. Abbiamo avuto il numero più alto di morti in Europa se raffrontato al numero di contagiati. Abbiamo avuto una opposizione inesistente che ha finto di contrastare la dittatura sanitaria che da marzo 2020 si è instaurata sul nostro territorio, calpestando qualunque diritto costituzionale; e di questo non solo il governo Conte, e adesso Draghi, ma la finta opposizione di Matteo Salvini e della Lega Nord, e di Forza Italia, un giorno dovranno rispondere. Spero, come ha detto Stefano Zecchi riferendosi a Norimberga, davanti a un tribunale. Aspetto nel frattempo che qualche associazione dei consumatori col cervello funzionante faccia ricorso contro il ridicolo (finto) obbligo di portare la mascherina all’aperto che io non porto mai. Finto perché in realtà il DPCM incostituzionale che regola il suo utilizzo non dice di doverla portare all’aperto. Mi fermo qui. Meglio.

Intanto ti ringrazio, e ti congedo con un’ultima, semplice domanda. Sei già al lavoro per un nuovo libro? Cosa dobbiamo aspettarci da Adriano Angelini Sut dopo una produzione così articolata come quella che ci hai regalato fino ad oggi?

Sto provando a scrivere il prequel di Imago Lux. Ma non è detto che ci riesca. La chiamata c’è. Ma tutti noi in questo periodo storico stiamo subendo attacchi dell’esterno che, credimi, sono infidi e sottili a livello psicoenergetico. Io non guardo mai la Tv, e leggo pochissima informazione, ma siamo ugualmente bombardati dalla propaganda del regime dittatoriale sanitario globale. Un regime che nasconde altro. Anzi, che non nasconde nemmeno più la voglia di controllare totalmente gli esseri umani e privarli della loro libertà, o di quel poco di libertà che eravamo riusciti a conquistare anche grazie alla sinistra. Una sinistra che oggi, invece, è il peggior nemico sia del popolo che delle libertà (e non solo della Libertà).

Federico Magi, aprile 2021.

Edizione esaminata e brevi note

Adriano Angelini Sut (Roma, 1968). Ha collaborato con Il Foglio e Radio Radicale. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi “L’ultimo singolo di Lucio Battisti” (selezionato al Premio Strega 2018) e “Jackie”, e il saggio “Mary Shelley e la maledizione del lago”. L’ultima sua opera di narrativa, pubblicata da pochi mesi, è “Imago Lux”.