Axelsson Majgull

Io non mi chiamo Miriam

Pubblicato il: 12 Gennaio 2017

In un’intervista la scrittrice svedese Majgull Axelsson spiega: “quello che è successo nei campi di concentramento è stato -a ragione- un’area proibita per i romanzieri. Non avrei scritto questo libro quindici o vent’anni fa. Ma oggi molti dei sopravvissuti sono già morti e credo sia giunto il momento, per noi romanzieri, di iniziare a raccontare le loro storie. Perché è una parte della storia d’Europa che non potremo mai permetterci di dimenticare“. Ecco: ora tocca ai romanzieri raccontare l’Olocausto. Il tempo dei testimoni è praticamente esaurito visto che i sopravvissuti ai campi nazisti sono oramai pochissimi e molto anziani. La memoria deve farsi anche letteratura in senso più stretto, ossia autentica creazione narrativa. Un concetto diverso rispetto a quelli espressi da Wiesel (Un romanzo su Treblinka è impossibile: o non è un romanzo o non parla di Treblinka) o da Adorno (Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie). La Axellson appartiene ad una generazione successiva e come lei anche io ritengo che continuare a scrivere su determinati argomenti sia necessario anche traducendo certe vicende in romanzo.

“Io non mi chiamo Miriam” è un romanzo eccellente. Un’opera lunga e complessa, una lettura difficile da interrompere o abbandonare. Miriam è un nome ebraico. Ed è il minuscolo dettaglio iniziale che mi ha intrigato e spinto a scegliere questo libro. Un titolo che appare immediatamente come una negazione, un ripudio. E, in effetti, Miriam, voce narrante e protagonista del libro, ammette di non chiamarsi affatto Miriam. E’ il suo ottantacinquesimo compleanno. Accanto a sé ha suo figlio Thomas, la moglie di suo figlio, Katrina, e la figlia dei due, sua nipote Camilla. Solo un sussurro sovrappensiero nel quale l’anziana donna confessa quel che non ha mai confessato ad anima viva: lei non si chiama Miriam. Tutti sembrano non aver neppure afferrato con precisione quel che Miriam si è lasciata sfuggire proprio nel momento in cui riceve il bracciale che la sua famiglia le ha regalato. Quel bracciale porta inciso il suo nome, Miriam, ma lei non è Miriam.

Solo Camilla pare aver compreso la strana affermazione di sua nonna. Ed è proprio a Camilla che Miriam, durante una lunga passeggiata attorno al lago vicino casa, racconta la verità delle sue origini e della sua sopravvivenza. In fondo “Io non mi chiamo Miriam” si svolge nell’arco di una semplice passeggiata ma al suo interno racchiude un’intera esistenza, tanti fantasmi e una miriade di cose taciute. Miriam non si chiama Miriam ma Malika. Non è un’ebrea sopravvissuta alla Shoah, come ha sempre dichiarato, ma una Rom che ha finto di essere ebrea per cercare di non farsi uccidere dai nazisti a Ravensbrück prima e ad Auschwitz poi. Perché i Rom come lei hanno ancora meno chances di sopravvivere nei campi di concentramento, perché i Rom sono considerati feccia sia dai nazisti che dagli ebrei, perché lo sterminio dei Rom, perpetrato insieme a quello degli ebrei, degli omosessuali, dei prigionieri politici, dei Testimoni di Geova e di molti altri esseri umani durante il nazismo, rimane tutt’oggi uno degli eventi meno studiati e raccontati del Novecento.

Malika è poco più di una bambina quando viene deportata. Assiste alla morte del suo fratellino Didi, infettato volutamente da Mengele per i suoi folli esperimenti medici, e a quella della cugina Annuska uccisa appena giunta nel campo per aver rifiutato di togliersi i vestiti di dosso. Malika rimane sola. Durante il trasporto da Ravensbrück ad Auschwitz ruba i vestiti di una ragazza ebrea appena morta con la quale condivide gli ultimi tre numeri di matricola tatuati sul braccio. Sostituisce il suo triangolo marrone con quello giallo di Miriam Goldberg e graffia via dalla sua pelle la Z e le cifre iniziali che la facevano ancora una Rom. Malika è Miriam, un’ebrea tra le tante. Una vittima tra le tante.

Al racconto abbastanza articolato e dettagliato della sopravvivenza ad Auschwitz si sovrappongono le vicende della Miriam giunta in Svezia e salvata da Hanna e poi andata persino in sposa al fratello di lei, Olof, il dentista del luogo. Costanti i movimenti nel tempo, tra le esperienze e le menzogne di Malika. Desiderio di protezione e di appartenenza, prima di tutto. E’ quanto spinge Malika a rinnegare, con susseguente e profondissima colpa, le sue origini, il suo popolo, la sua stessa lingua. Ma Malika sa che in Svezia, soprattutto e anche nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, l’odio contro i Rom è ben radicato ed estremamente feroce. Deve dimenticare, deve tacere, deve nascondersi. Non ha altra scelta. Finge per settantanni di essere chi non è, un peso greve e doloroso che, soprattutto la notte, scava nei suoi incubi e stravolge la sua coscienza. Ne parla solo con Camilla: ricordi che straziano ma che sente di dover finalmente condividere con qualcuno con la promessa di non farne mai parola, ovviamente.

“Io non mi chiamo Miriam” ha il coraggio di accostarsi all’Olocausto attraverso una vicenda nuova seppur molto vicina a tante altre. Come scritto poco sopra, lo sterminio dei Rom ad opera di Hitler è quello meno raccontato tra tutti e alla Axellson va il merito di aver riportato alla luce l’orrore vissuto da questo popolo, sofferente al pari di altri ma al quale è stato storicamente riconosciuto molto meno rispetto ad altri. L’autrice dimostra di nutrire enorme rispetto nei confronti degli eventi che narra ma, nel contempo, lascia trapelare anche il rammarico e il “vuoto” letterario attorno a determinati argomenti. Il suo romanzo, per quanto possibile, cerca evidentemente di supplire e lo fa, a mio avviso, magnificamente.

Edizione esaminata e brevi note

Majgull Axelsson è nata nel 1947 a Nässjö. Ha lavorato a lungo come giornalista scrivendo anche diversi saggi. Il suo esordio nel mondo della narrativa avviene nel 1994 con “Långt borta från Niefelheim”, ma è con Aprilhäxan (“Strega d’aprile”, Elliot Edizioni, Roma, 2011) che raggiunge il successo e conquista l’Augustpriset nel 1997. Negli anni a seguire pubblica altri romanzi: “Slumpvandring” (2000), “Den jag aldrig var” (2004), “Is och vatten, vatten och is” (2008). “Io non mi chiamo Miriam” (Jag heter inte Miriam) esce a Stoccolma nel 2014 e nel 2015 la Axellson riceve l’Ivar Lo-Priset alla carriera, assegnato dalla Confederazione dei sindacati svedesi, confermando di essere una delle più apprezzate autrici svedesi, tradotta in ventitre lingue.

Majgull Axelsson, “Io non mi chiamo Miriam“, Iperborea, Milano, 2016. Traduzione di Laura Cangemi. Postfazione di Björn Larsson. Titolo originale: “Jag heter inte Miriam” (2014).

Incipit di “Io non mi chiamo Miriam” (pdf)

Pagine Internet su Majgull Axellson: Wikipedia (en) / Scheda Iperborea