Niffoi Salvatore

La vedova scalza

Pubblicato il: 18 Gennaio 2018

Con “La vedova scalza” Salvatore Niffoi ha vinto il Premio Campiello nel 2006. È un romanzo senza mezze misure: o lo si legge avidamente o lo si abbandona in fretta. Ostico il sardo che ricorre di frequente ed ostica la Barbagia dei primi del Novecento che racconta Niffoi. Può non piacere affatto questa “Vedova scalza”: lo rilevo dalle opinioni negative di chi, sul web, ammette di aver fatto grande fatica a proseguirne la lettura. Di “comodo” ne “La vedova scalza” c’è poco, è vero. Bisogna lasciare che la terra aspra, rude e ostile di Sardegna non diventi una zavorra; forse bisogna solo abbandonarsi alla voce amara di Mitonia, permetterle di attraversarci i pensieri e condurci in un tempo e in luoghi remoti, impregnati di una storia che può apparire selvatica, brutale, disperata ma comunque legata ad un’identità precisa, a un sentimento profondissimo ed indomabile.

Mintonia, come detto, è la voce che narra. Le sue memorie di donna sono raccolte in un quadernetto arrivato dall’Argentina. Perché è lì che Mintonia è scappata con suo figlio Dalio e un altro a crescerle nel grembo. Passati alcuni decenni da quella fuga, Itriedda Murisca, nipote di Mintonia, si vede recapitare un pacco. All’interno “un quaderno con la copertina di velluto, unu vistireddu da prima comunione, una lettera di accompagnamento, odore improvviso di colostra bollita e miele di cardo asinino“. Nella lettera Tzia Mintonia spiega “Cara Itriedda, per me è giunta l’ora di andarmene. Questa volta per sempre e solo dove Dio sa. Le cose che leggerai nel quaderno erano destinate a seguirmi nella tomba, a finire in un braciere. Per quelli di Taculè io sono morta il giorno della mia partenza o forse non sono mai nata. Invece ho avuto un’altra vita, sono nata due volte. Solo durante questi ultimi lunghi mesi di malattia ho deciso di far conoscere a qualcuno la vera storia della mia vita, per non essere sepolta in terra anzena senza che nessuno sapesse la verità, per non strazziolare definitivamente le mie radici. Ho scelto te perché non ho mai dimenticato i tuoi occhi buoni di bambina, gonfi di sogni e dolore, simili ai miei“.

Mintonia ricorda e Mintonia confessa. È un diario intimo quello ricevuto da Itriedda. L’infanzia da bambina ribelle, la voglia e la curiosità di chi non si accontenta e non si fa comandare: Mintonia impara persino a leggere e a scrivere a dispetto di chi ritiene le femmine abili solo a farsi mogli e a partorire figli, meglio se maschi. Ma, più di tutto, Mintonia racconta del suo amore per Micheddu. Una passione corrisposta, nata da ragazzini “…lo guardai dal primo giorno come un Dio. “O mi sposo quello o nessuno!“. Micheddu è il giovane più forte, è il più battagliero e il più scaltro. Inutile ostacolare quell’amore, inutile impedire a Mintonia di incontrare il giovane che ama. Lei lo vuole e se lo prende, nonostante Micheddu faccia vita da bandito, spesso alla macchia, spesso nascosto negli ovili o lì dove le guardie fasciste non possano scovarlo ed arrestarlo. Ma Mintonia lo ama e lo giustifica a prescindere. Lo ama e lo riporta a sé ogni volta. Anche quando glielo riconsegnano cadavere. “Me lo portarono a casa un mattino di giugno, spoiolato e smembrato a colpi di scure come un maiale. Neanche una goccia di sangue gli era rimasta. Due lados che ad appezzarli non sarebbe bastato un gomitolo di spago nero, di quello catramoso che i calzolai usano per le tomaie dei cosinzos di vacchetta“.

Un amore che si tramuta in tragedia, in uno schema narrativo intriso di pathos. Mintonia in un istante è vedova. Le hanno ucciso l’amato Micheddu. Le hanno restituito un cadavere mutilato, deturpato, deformato dalle botte, dalle sevizie, dalla morte violenta. La legge degli uomini, che poco ha a che fare con quella dello Stato, è tacita e non ammette rimedio: vendetta. È così che va in questa terra: il sangue si lava solo con altro sangue. Il castigo attende chi ha deciso la morte di Micheddu. Così funziona tra questa gente: “A studiarci e descriverci non basterebbe un’altra Bibbia. Ci vorrebbe un’enciclopedia per ognuno di noi, perché siamo gente strana in terra strana. I continentali non li capiscono quelli come noi, a loro sembra tutto facile, perché hanno strade e fabbriche, non mangiano orgiathu e rabbia tutti i santi giorni. I costerini sono anche peggio, abituati a lasciarsi stiddiare dal sole, a camminare scalzi sulla sabbia e a stare sempre col culo in mare. Montagnini, pastorazzi e gherradori ci considerano! Cosa ne sanno loro della solitudine della campagna, delle annate cattive, della neve, del nostro essere pastinati in quelle rocce come meridiane del tempo, a fare la guardiania al passato? Noi siamo zente che vuole istrumpare a terra il mondo e poi ci lasciamo futtire da magie e superstizioni. Dalle illusioni che scavano nella carne solchi profondi, come la guerra, appunto. E se ci va bene così? Cosa ci possiamo fare? Pianghioli e fatalisti ci chiamano. Noi siamo come i nuraghi, tutto ci scuote e niente ci muove: prendere o lasciare senza troncare troppo le gambe!“.

Parole che mi hanno incantata e commossa. Gente strana in terra strana, scrive Niffoi perché conosce le storie lontane della gente della sua terra. Ne ha assorbito l’essenza, ne ha respirato il fiato e la polvere, ne ha tratto materia per scrivere un romanzo potente e feroce come “La vedova scalza”. Mintonia è una donna che non si ferma davanti a nessuno, che richiama “Il paese del vento” di Grazia Deledda e ha la forza immane di farsi sacra per vendicare la morte dell’uomo che qualcuno le ha portato via. È una tragedia pura, questo libro. Una tragedia immersa in un mondo arcaico, governato da principi che non ammettono sfumature o altre ombre. Non c’è alcuna gentilezza nella scrittura di Niffoi e la lingua sarda disseminata in ogni pagina è da considerare un punto di forza non un inciampo. Mintonia parla e lo fa in maniera implacabile e diretta anche se il talentuoso Niffoi le ha concesso comunque qualche immagine di grande poeticità e delicatezza. Non è una lettura semplice, “La vedova scalza”. Anzi, è una lettura che richiede concentrazione ed impegno, accortezza e dedizione. Uno sforzo che non tutti i lettori decidono di compiere, purtroppo.

Edizione esaminata e brevi note

Salvatore Niffoi è nato nel 1950 ad Orani, in Barbagia, provincia di Nuoro. Ha studiato Lettere a Roma e si è laureato nel 1976 con una tesi sulla poesia in sardo. Il suo primo romanzo si intitola “Collodoro” ed è stato pubblicato nel 1997 da Solinas. Nel 1999 pubblica per Il Maestrale “Il viaggio degli inganni” a cui fanno seguito “Il postino di Piracherfa” (2000), “Cristolu” (2001) e “La sesta ora” (2003). Invece i romanzi “La leggenda di Redenta Tiria”, “La vedova scalza” (Premio Campiello nel 2006) e “Ritorno a Baraule” sono pubblicato da Adelphi. “Pantumas” (2012) e “La quinta stagione è l’inferno” (2014) sono editi da Feltrinelli. “Il venditore di metafore” esce per Giunti nel 2017.

Salvatore Niffoi, “La vedova scalza“, Adelphi, Milano, 2006.

Pagine Internet su Salvatore Niffoi: Wikipedia / Làcanas / Premio Campiello