Lorenzo Lilia Carlota

Il cappotto della macellaia

Pubblicato il: 25 Aprile 2018

“Il cappotto della macellaia” è un raro e riuscito esempio di self-publishing, pratica che personalmente non mi ispira e non mi convince perché temo sia per lo più deleterio, nonché sciocco, consentire a chiunque di pubblicare qualsiasi cosa grazie al supporto di piattaforme Internet appositamente create. La conseguenza tragica di tali iniziative è che in giro ci sono più individui privi di talento e di preparazione che si autodefiniscono scrittori piuttosto che persone disposte a leggere quello che gli autodefiniti scrittori pubblicano da soli ovunque sia possibile farlo. Comunque, tornando a “Il cappotto della macellaia”, si tratta di un testo che, con l’ausilio di un buon editor, è stato tramutato in un romanzo brillante e pittoresco, beffardo ed intrigante da leggere quando si ha bisogno di un po’ di leggerezza. A primo impatto ad attirarmi, oltre alla curiosità di capire il ruolo di una macellaia e del suo cappotto, è stata anche l’immagine di copertina: un particolare della “Donna che mangia banane” di Fermando Botero, artista che mi piace e mi diverte. Una figura che potrebbe ricordare il personaggio di Pagnottina, volendo, ma è meglio procedere con ordine.

All’alba di giovedì 7 ottobre 1943, in un paese sperduto delle pampas argentine, fu ucciso un uomo. La verità non venne mai a galla: i morti non parlano, gli assassini non si autoaccusano, l’unico testimone non disse nulla perché era il vero colpevole“. Incipit perfetto, a mio avviso. Sappiamo già che ci aspetta un delitto, che siamo nell’Argentina dei primi anni ’40 e che la vittima è sicuramente un uomo. Si passa dunque al capitolo successivo e col capitolo successivo ci si addentra nel piccolo paese della pampa che risponde al nome di Palo Santo: 207 abitanti per soli otto isolati di estensione. Un microcosmo nel quale, a quanto pare, succedono fatti piuttosto bizzarri, oltre che inquietanti, che vale la pena raccontare.

Va sottolineato che la forza della storia sta tutta nei personaggi che Lilia Carlota Lorenzo ha saputo inventare o, meglio, ricostruire ispirandosi a storie e persone reali descritte e raccontate da sua madre e sua nonna. La scrittrice d’origine sudamericana passa così in rassegna le figure con le quali dovremo misurarci nel corso della lettura. Personaggi per lo più arrabbiati, insoddisfatti, vecchi, brutti, puzzolenti ed ipocriti. Per ognuno di essi vengono descritti, in maniera molto diretta e spietata, i pensieri, le paure e le voglie, anche quelle più meschine e recondite. Non ci sono mezze misure neppure nel linguaggio utilizzato. Anzi sembra che i personaggi prendano vigore proprio dalla schiettezza e dalla spietatezza della scrittura con cui l’autrice li anima e li fa vivere. La prima figura con la quale facciamo conoscenza è la signora Fernández -nata Tomasetto- la sarta di Palo Santo, donna bruttina e perennemente insoddisfatta dalla vita che da settimane sta lavorando alla realizzazione del cappotto per Pagnottina, ossia la figlia del macellaio Andreani e di sua moglie, l’arcigna e fastidiosa maestra del paese. Un cappotto che viene cucito e ricucito, allargato e sistemato ogni volta perché Pagnottina, un nomignolo che è tutto un programma, non smette di ingrassare presa com’è da tutto quello che è commestibile e che fagocita senza alcun limite alla faccia dei rimproveri materni.

Vengono poi le sorelle Paganini, quelle che “…gestivano la merceria del paese. Solo articoli di ottima qualità. I nomi bizzarri erano frutto dell’amore smodato per la storia antica che aveva avuto in vita il defunto signor Paganini. Non potendo avere figli maschi, aveva trasformato al femminile il nome dei suoi eroi. In realtà, del negozio si occupava soltanto Solimana. Marca Antonia, detta Marcantonia per facilitare la pronuncia, faceva quel che poteva in casa” perché Marcantonia purtroppo è vittima di un accentuato ritardo mentale oltre che portatrice di un segreto che solo sua sorella Solimana conosce. Solimana bella, la più bella di tutto Palo Santo, ultraquarantenne in pieno possesso delle sue facoltà sessuali, colei che si diverte a sedurre qualsiasi essere di genere maschile gli capiti a tiro e colpisca la sua fantasia tanto da a attirarlo nella sua casa, farlo spogliare e controllarne ogni dettaglio corporale. Ma c’è anche la vedova Manchú, la stramba telefonista del posto che vive le vite degli altri piuttosto che la sua ascoltando ogni conversazione che attraversi le linee telefoniche del luogo ed avendo eliminato da tempo ogni possibilità di contatto con chiunque. E c’è pure il piccolo Pepincito, il figlio della sarta, che vive di incubi antropofagi e fumetti western, bambino ritenuto da tutti un po’ rintronato oltre che piuttosto strampalato.

Ovviamente a popolare Palo Santo e le pagine di questo romanzo ci sono altre figure ed altri interessanti accadimenti, ma si tratta di un giallo per cui non si può svelare più di tanto. Un giallo sui generis, s’intende. Un giallo brillante, anzi quasi fluorescente. E sono proprio le tinte eccessive e stralunate di cui si macchia ogni pagina che mi hanno affascinata, il tono scanzonato e surreale con cui tutto è raccontato che mi ha divertita. Ho iniziato e finito “Il cappotto della macellaia” nel giro di pochissimo tempo perché è una lettura spensierata e spassosa, da suggerire a chiunque non voglia impegnarsi più di tanto ma desideri, semplicemente, addentrarsi nei torbidi misteri di un piccolo paese sudamericano di 207 abitanti per soli otto isolati di estensione che non esiste più o non è mai esistito.

Edizione esaminata e brevi note

Lilia Carlota Lorenzo ha origini argentine. Ha frequentato le facoltà di giornalismo e giurisprudenza, per poi diventare un architetto senza alcuna ispirazione. Vive tra l’Italia e l’Argentina. Ha fatto molti mestieri e nel 2012 ha pubblicato su Amazon “Il cappotto della macellaia” riuscendo, in poco tempo, a sbancare le classifiche di vendita. Poco più tardi il suo romanzo è stato pubblicato da Mondadori.

Lilia Carlota Lorenzo, “Il cappotto della macellaia”, Mondadori, Milano, 2016.